Antonio Tabucchi: Ho paura di sognare

01 Gennaio 2002
Di una cosa ero certo: che io potevo vederli, ma non potevo essere visto. C’era qualcosa che mi nascondeva al loro sguardo, una sorta di diaframma o di schermo che non riuscivo bene a decifrare, che mi proteggeva dalla loro vista. Eppure avevo la sensazione di essere esposto in piena luce, seduto in prima fila, come a teatro. E da quella prima fila potevo osservarli. I loro gesti mi giungevano nitidi come l’odore che i loro corpi emanavano. Era un odore greve e dolciastro, lo stesso che avevo avvertito in un anno ormai lontano quando, in un obitorio di una cittadina di un Paese straniero, ero dovuto andare a riconoscere il cadavere di un mio amico naufragato con la sua barca. Era uno spettacolo, di questo ero certo. Ma quello spettacolo era rappresentato in tutta la sua nuda verità, ed era vero perché era più vero del vero. La scena si svolgeva sulle banchine di un porto di una città mediterranea, illuminata da un sole meridiano che conferiva alla scena quella luce allarmante che hanno certe fotografie sovraesposte. Al molo era attraccata una nave d’acciaio, certamente da guerra, misteriosa e minacciosa come la corazzata di un vecchissimo film. Era ornata da cannoni e da una bandiera di tre colori che garriva al vento. L’inquietudine si è impadronita di me. Qualcosa di turpe, lo sentivo, stava per succedere. E percepivo anche che tutto ciò non era reale, era frutto della mia fantasia lasciata allo stato libero come quando si sogna. Mi sono detto: perché vogliono che io sogni questo sogno? Chi mi obbliga a sognare? Mi sono detto ancora: devi svegliarti, non puoi tollerare che ti si obblighi a sognare un sogno che non vuoi sognare, costoro si sono insinuati nella tua anima, vogliono impadronirsi di te.

Mi sono dato un pizzicotto, come si fa per svegliare un dormiente, ma non ho ottenuto nessun effetto. Dunque non stavo sognando, era vero. Mi sono rassegnato: lo spettacolo a cui ero invitato non era un mio sogno, era vero davvero.

Sul molo che vedevo dalla mia finestrella, seduto comodamente sulla mia poltrona al riparo da sguardi indiscreti, è apparso il volto di un uomo con aria trionfale. Un liquido oleoso gli scendeva dai radi capelli e gli irrorava le guance, rendendolo lustro sotto i raggi di un sole che forse era artificiale. «Buonasera, ha detto con voce melliflua, sono il dottor Melanoma, ogni mio servizio è un servizio ai Servizi, e così preferisco chiamarmi per quella natura sarcomatica che vuole la mia funzione di Officiante, di questa solenne riunione nella quale saranno decise le sorti del nostro villaggio! Il dio Caprone, di cui siamo gli umili servi, oggi raduna qui le sue folle veneranti. Che la processione cominci!». A quel punto sono risuonate nell’aria le note di un inno marziale. Un grande coro, anzi, un vocìo, accompagnava quella musica pomposa. Ma era impossibile distinguere nitidamente tutte le parole. Si coglievano solo spezzoni qua e là, come sintagmi isolati di una litania: «Guerra, guerra, guerra». E poi altre parole sussurrate, sillabe alate, incompiute, monche: «Arti amputati - ah, ah, ah - corpi dilaniati - ah, ah, ah - teste maciullate - ah, ah, ah - sangue, sangue, sangue».

Il corteo è apparso in fondo al molo, avanzando. Lo guidava una sinistra figura che incuteva terrore nell’aspetto. Era un uomo obeso, dai capelli scarmigliati e le guance arrossate. Il suo ventre enorme terminava sugli inguini, che poggiavano su una piccola piattaforma di legno sotto la quale erano state disposte quattro piccole ruote. Quella tavoletta era il suo mezzo di locomozione, che il grassone guidava e manovrava aiutandosi con le mani sul terreno. Sul suo carrello improvvisato svettavano due vessilli. Su uno c’era scritto «I combattenti e i reduci delle guerre di civiltà». Sull’altro, un foglio di carta straccia tutta macchiata, recava la frase: «Gli amici di Adriano». La mia memoria sognante ha associato quel nome a un libro che mi è caro, perché di Adriano conosco le memorie, ma poi, nell’inconsapevolezza lucida del sogno, ho capito il mio equivoco. Ho sentito un brivido nella schiena e ho pensato: non si riferiscono a un imperatore, stanno parlando di un prigioniero, cosa c’entra lui, perché usano il suo nome?, è un innocente condannato a vita, e la «rogatoria» che lo ha inchiodato, la parola improbabile di un pentito era priva di qualsiasi bollo di garanzia. E poi ho pensato: vigliacchi, fa comodo a tutti che resti in galera.

Il capogruppo ha estratto da una tasca una bandiera piena di stelle con la quale ha avvolto il suo moncherone obeso e ha gridato: «Avanti, eroi, per la polvere di stelle!». Dietro di lui avanzava una figura femminile che gridava come un’erinni: «Sono sua moglie!, sono sua moglie!, noi abbiamo insegnato agli Italiani, con la verità degli schermi televisivi, come si pratica il sesso». Ho cominciato ad aver paura. E a quel punto è scoppiata la musica: un’orchestrina di fiati, dietro di lui, ha intonato un celebre swing: Star dust, polvere di stelle. Ho guardato meglio. Erano dei musicanti che parevano uscissero da una fiaba dei fratelli Grimm, con un’aria di saltimbanchi pezzenti. Colui che suonava il trombone era un uomo lungo e allampanato, che negli intervalli del suo fiato sussurrava rivolto al moncherone: «Sei il più intelligente, per questo noi gente veniamo con te». Gli altri strumentisti, dotati di flauti, clarinetti, cornette e trombette, avevano tutti decorazioni sul petto e cartelli infilati nel collo che indicavano le loro alte funzioni. Poi dal gruppo si è staccato un individuo dall’aria superba e dallo sguardo gelido, vestito con un abito elegantissimo. Si è diretto verso un uomo vestito di un impermeabile di cuoio nero che li osservava sulla destra del molo e che teneva in mano una pistola e un rotolo di dollari. «Le ho portato le foto segnaletiche di tutti coloro che stanno dalla parte del nemico», ha detto in tono beffardo l’uomo dall’elegante vestito grigio, finalmente questo Paese è libero di denunciare i traditori». Poi si è girato verso il mio punto di osservazione, e per un attimo ho pensato che si rivolgesse a me, che mi avesse scoperto, anche se probabilmente si rivolgeva al suo pubblico. La sua voce, con tono metallico, scandiva frasi pronunciate con una sintassi italiana elementare. «Se tu mi avessi riconosciuto - ha sibilato - attento a fare il mio nome, sai, potresti ricevere visite nella tua abitazione, qualche grammo di polverina bianca sparsa qua e là portata dai nostri bravi agenti, non fare lo sciocco, amico, scrivi romanzi e basta, noi saremo tolleranti se ti comporterai bene». Dietro di lui venivano altri ometti in doppiopetto. Avevano il volto minaccioso e il braccio steso in avanti, con il palmo della mano aperto sul quale c’era scritto con l’inchiostro: «Ministro della Repubblica».

Solo a quel punto mi sono accorto che tutti i componenti della processione avevano delle protesi artificiali: chi con una gamba di legno, chi con delle braccia di metallo, chi, ormai privo di braccia e gambe, agitava nell’aria con fare esultante arti artificiali di acciaio lucente. Ciascuno di loro portava sul bavero della giacca un cartellino con scritto «Reduci dalle guerre della civiltà», mentre un vecchietto bonario, vestito da chierichetto, li benediceva con un aspersorio.

E a quel punto il tronco amputato del grassone ha gridato: «Che il Sabba cominci! Dio salvi la civiltà, la civiltà che per tutti questi anni abbiamo imposto nel mondo, quella nostra, quella vera, quella per la quale i nostri servizi si sono adoperati a disprezzo delle proprie vite e soprattutto delle vite altrui, quelle vite che per fortuna abbiamo rinchiuso negli stadi in Cile e gettato dagli aerei nei mari dell’Argentina».

La musica è salita di intensità, come colta da una frenesia. Il corteo di sciancati, i poveri reduci da tante battaglie, che hanno vissuto tutti questi anni nell’indigenza e nella penuria, è finalmente esploso in una danza carnevalesca animata dall’euforia panica di chi capisce che è ancora vivo, di chi possiede ancora un sangue robusto che irrora le sue protesi. E mentre il sabba raggiungeva il suo spasimo in un pandemonio di voci urlanti e di corpi dimenanti, un cane ha furiosamente abbaiato nelle tenebre che erano cadute sulla scena, ma soprattutto ha attraversato i miei timpani la voce gracchiante di una strega dal volto incartapecorito e lascivo che gridava con giubilo: «Abbracciamolo, a prescindere, abbracciamolo, a prescindere».

La nausea è stata più forte del sogno, ho avuto un sobbalzo e mi sono svegliato. Era notte fonda, e dallo schermo del televisore giungeva solo quella polverina elettrica di quando le trasmissioni sono finite. Ah, era stato solo un incubo, un terribile incubo. Per fortuna mi ero svegliato alla realtà: intorno a me c’era solo l’Italia di oggi.

Note
A mo’ di autocertificazione (pratica ancora consentita) e prima che lo faccia qualche giornale in stretto rapporto con i servizi segreti o qualche psicoanalista chiamato da trasmissioni televisive, vorrei fornire le fonti principali di questo sogno:
1.Retrospettiva Goya, in mostra in questi giorni al Museo del Prado di Madrid. La mostra riunisce per la prima volta, oltre alle opere del pittore spagnolo presenti al Prado, numerose opere appartenenti a musei stranieri. Particolare attenzione è dedicata alle opere più cupe e dissacratorie come I disastri della guerra e i quadri sui roghi dell’Inquisizione e sui sabba che in quell’epoca popolavano la vita e l’immaginazione delle persone.
2. Francisco Goya, El libro de los Caprichos, a cura di Javier Blas, Josè Manuel Matilla e Josè Miguel Medrano, Ediciones del Museo del Prado, Madrid 1999 (si tratta della riproduzione in anastatica, con ampio apparato critico, dei Caprichos di Goya il cui lemma, che si è imposto nel tempo come emblema, è: «Il sonno della ragione genera mostri»).
3. Carlo Ginzburg, Storia notturna. Una decifrazione del Sabba, Einaudi 1989.
4. Una trasmissione televisiva di Rai2 dedicata all’ortopedico italiano Alberto Cairo che da anni opera a Kabul e che finora ha costruito e istallato nei corpi degli afghani, 40mila protesi di gambe e braccia amputati dalle bombe e dalle mine. 5. Un talk-show televisivo della Rai in onda tutte le sere.
6. La manifestazione a favore dei bombardamenti sull’Afghanistan organizzata dal direttore del giornale Il Foglio, Giuliano Ferrara, con la partecipazione di Silvio Berlusconi e delle forze di governo, e trasmesso in diretta dalla Rai.
7. Svariati telegiornali di Mediaset e della Rai.
8. La grande maggioranza dei quotidiani italiani, alcuni dei quali sostenuti dal denaro dei contribuenti.
9. Giorgio Boatti, Preferirei di no. La storia dei dodici professori universitari che si opposero a Mussolini, Einaudi 2001; Mimmo Franzinelli, Delatori. Spie e confidenti anonimi. L’arma segreta del regime fascista, Mondadori 2001.
10. La bozza di progetto di uno stato poliziesco elaborata recentemente dal ministro Frattini.
11. Il nostro inconscio, al quale il governo Berlusconi non ha ancora esteso alcuna legge.

Copyright l’Unità e El Pais Internacional

Antonio Tabucchi

Antonio Tabucchi (Pisa, 1943 - Lisbona, 2012) ha pubblicato Piazza d’Italia (Bompiani, 1975), Il piccolo naviglio (Mondadori, 1978), Il gioco del rovescio (Il Saggiatore, 1981), Donna di Porto Pim (Sellerio, 1983), Notturno indiano (Sellerio, 1984), I volatili del Beato Angelico (Sellerio, 1987), Sogni …