Paolo Rumiz: La tragedia del Vajont

17 Giugno 2002
Non c´è pace per Longarone. Trentanove anni dopo il Vajont, uno spettro la tormenta ancora. È una corriera olandese, o forse tedesca, che nessuno vide quella notte del 9 ottobre del 1963, ma che sarebbe ancora là sotto, nel sarcofago di ghiaie. Una fatamorgana, dicono in tanti. Un´ombra immaginaria uscita dal buco nero della memoria. Ma intanto si ricomincia a scavare nella valle del Piave, spazzata in quattro minuti dall´onda dell´apocalisse.
Succede che dopo 39 anni qualcuno racconta, rivela d´aver dissepolto, pochi mesi dopo la tragedia, un automezzo di grandi dimensioni che sfiatava miasmi di morte, ma d´aver ricoperto tutto per paura. Succede che la magistratura s´è messa in moto, l´Esercito è intervenuto a sondare le ghiaie e i rivelatori hanno sentito qualcosa di metallico là sotto, nell´onda gigantesca di pietre che la marea ha spinto nella Val di Zoldo, per centinaia di metri, oltre il ponte della ferrovia.
Si scava ancora, presto sapremo la verità. Ma quassù sul Piave la gente è stanca. Sente che è come se Longarone avesse deciso di farsi ancora del male. Si chiede se oggi sono davvero i morti che tornano o è solo un fantasma, un vecchio incubo che riemerge dal fondo d´una memoria spezzata. Non capisce tutta questa smania di cercare, così in fretta, dopo quarant´anni. E accusa stampa e politica di speculare sul lutto della valle.
«Se vogliamo scavare, scaviamo», ti dicono al bar Perin, nel cuore di cemento della nuova Longarone, semideserta sotto il Sasso di Bosconero e la vampa estiva. «Ma allora - aggiungono - rivoltiamo il Monte Grappa, il Pasubio, le Tofane. Allora scaviamo tutta l´Italia. Allora ci sono i militi ignoti di tre guerre d´indipendenza e di due conflitti mondiali da tirar fuori. Se è questo che vogliono, facciano pure».
I pochi sopravvissuti hanno una luce piatta negli occhi, la luce di chi conosce la fatica della memoria. Sanno che, ogni volta che si riparla di allora, si riaprono ferite. Ma alla fine raccontano, riprendono in mano il filo d´una storia lunga 39 anni. Ti dicono che la leggenda della corriera scomparsa con un carico di stranieri nasce subito dopo l´olocausto del 9 ottobre, quando dal fango riemerge un corpo diverso da tutti gli altri.
È una donna senza nome. Una donna bionda, con gli occhi azzurri. La portano alla morgue, ne cercano i parenti ma nessuno la riconosce. Ha le gambe depilate e le unghie con la lacca. Nel timorato Veneto Anni '60 non ne hanno mai viste di donne così. La gente mormora: dev´essere olandese. Di certo, deve venire da un Paese libero.
Intanto manca all´appello una corriera. Appartiene alla ditta Longoni, che gestisce i trasporti con la Val di Zoldo. Un mezzo probabilmente vuoto, che al momento dell´onda è parcheggiato non lontano dal torrente Maé, quello che scende da Zoldo. Così, nella tempesta di voci che seguono al disastro, le due storie si fondono. E il 30 ottobre il Gazzettino rivela che da qualche parte, là sotto, è sepolta una corriera di olandesi.
Nessun Paese straniero lamenta dispersi, l´ipotesi è scartata. Ma il mistero continua a dormire nella fantasia collettiva. Dorme fino a quando, nel maggio '64, il 19enne Alvise Maso viene assunto per lavorare al consolidamento del ponte ferroviario sul Maé, squassato dall´ondata di pietrisco. Nel tempo libero, l´operaio cerca ferrovecchio tra le pietre, per arrotondare lo stipendio. Finché un giorno la scavatrice urta una cosa metallica.
È una corriera, capovolta e senza ruote. Dentro, una massa scura, nella quale non si distinguono corpi. Fango? Il fetore è insopportabile, lui pensa che sia di decomposizione. Gli torna in mente la storia degli olandesi e si spaventa. Chiama sul posto una coppia di amici, e questi gli spiegano che sta scavando senza autorizzazione. Dunque è meglio coprire tutto in fretta e tacere.
Maso tacerà per 38 anni e per 38 anni nessuno toccherà le pietraie del Maé.
Vi s´oppone la Polizia: in profondità ci sono bombe d´aereo inesplose, roba degli Alleati a fine conflitto. Intanto c´è altro da pensare. La valle cambia, cominciano gli anni del cemento. Ci sono 400 corpi ancora da trovare, ma in fondovalle nasce la nuova zona industriale, così vicino al Piave che il fiume pochi anni dopo se la porta quasi via. Il paese ricomincia a vivere, ma le ferite nell´anima non si rimarginano.
Così, nel momento in cui la lunghissima istruttoria sul disastro si conclude inchiodando l´Enel alle sue responsabilità, i primi risarcimenti attivano gli appetiti di alcuni e la memoria disperata di altri. E nel '93, quando l´attore Marco Paolini - con l´orazione civile sul Vajont - sbatte in faccia al Paese quella tremenda storia, il tappo della rimozione si rompe, diventa una nuova onda di piena. Riemergono brandelli di vite. E il fantasma della corriera riappare.
Succede quando gli industriali progettano un salumificio sulla frana del Monte Toc. Sì, proprio quella che ha colmato l´invaso della diga. Dicono: è per dare una mano ai paesi lambiti dall´onda assassina. Ma alcuni dei superstiti si oppongono: niente maiali sopra i morti. E poiché nessuno sa nulla del ritrovamento sulle ghiaie del Maé, ecco che dalla frana del Toc riemerge una leggenda di Erto. Là sotto, sigillata nel vecchio tunnel, c´è una corriera di tedeschi colti dalla piena mentre andavano a trovare parenti in Cadore.
Ormai sui morti ci sono industrie e cemento: in valle non sanno più che fare. Se scavi, ti dicono di lasciare in pace i morti. Se non lo fai, ti imputano di non voler dar loro sepoltura cristiana. Il clima diventa difficile, la memoria di Longarone si divide, l´associazionismo dei superstiti pure. Ed è proprio qui che, nel natale del 2001, Alvise Maso decide di vuotare il sacco. Ha 57 anni, e il tonfo di quella scavatrice che urta la corriera lo tormenta ancora.
Chiama due conoscenti, racconta tutto nei dettagli. Una confessione sincera, emotiva. Ma ha ancora paura, teme la stampa. Aspetta per settimane, poi scrive Procuratore della Repubblica, Mario Fabbri, lo stesso uomo che come giudice istruttore avviò le memorabili indagini sul Vajont. Poi, con il sindaco di Longarone, Pierluigi De Cesero, torna sul luogo del ritrovamento.
Il racconto è verosimile. Arrivano i militari, con i metal detector, "sentono" in profondità molto ferro. Un traliccio, soprattutto. Ma nulla ha le dimensioni della corriera.
E qui entra in scena un´altra associazione di superstiti, guidata da Guglielmo Cornaviera. Protestano: non si fa abbastanza in fretta. E rifanno l´indagine per conto loro, con un altro metal detector, un aggeggio artigianale. Dichiarano che sotto c´è una cosa di metallo di dieci metri per due e mezzo, le dimensioni esatte di una corriera. Segnano con uno spray il perimetro dell´oggetto sepolto sulle ghiaie. E minacciano: se Comune e Procura non si muoveranno rapidamente, cominceremo a scavare da soli.
A quel punto si solleva il polverone, la storia arriva sui giornali, si gonfia la psicosi che qualcuno nasconda qualcosa. Cornaviera chiede le dimissioni del sindaco e del procuratore della Repubblica. Qualcuno trova ossa tra le pietre. I medici dicono: sono di animali. Ma il rinvenitore non si rassegna. Nella valle tira la stessa aria del delitto di Alleghe. «Più alcuni si dichiaravano innocenti - ricorda la gente - più altri gridavano alla congiura, al complotto di mafia».
«Quello che si deve fare sarà fatto nei tempi dovuti - assicura il sindaco - ma avrei preferito che questa cosa avvenisse senza clamori. Il Paese mi chiede di lasciare i morti in pace. Il fatto è che ci sono alcuni che non se la danno, questa pace. Si è cercato sulle ghiaie del Maé con un ciondolo da rabdomante. Ecco: non capisco tutta questa fretta, a 13 mila giorni dalla tragedia».
In realtà, ti dice la gente, qui c´è ben altro che la corriera da disseppellire. C´è la zona industriale sul Piave, nel posto più pericoloso della valle. C´è lo stupro edilizio Anni '70. Ci sono i soldi della legge sul Vajont con cui s´è costruita la superstrada per la spiaggia di Lignano e la funivia per le Tofane, la "Freccia del cielo". «Ecco - chiude il discorso Marco Paolini - forse le vere corriere sepolte sono quelle».

Paolo Rumiz

Paolo Rumiz, triestino, è scrittore e viaggiatore. Con Feltrinelli ha pubblicato La secessione leggera (2001), Tre uomini in bicicletta (con Francesco Altan; 2002), È Oriente (2003), La leggenda dei monti …