Sul nuovo libro di Amos Oz

21 Agosto 2002
Gerusalemme. Camminavano con circospezione, guardinghi, timorosi, gli ebrei europei appena immigrati nella Palestina degli anni Trenta e Quaranta. "Sembrava andassero a una processione, seguissero un funerale, oppure fossero arrivati tardi a un concerto e non volessero disturbare. Prima appoggiavano la punta della scarpa, tastavano il terreno, ma dopo aver appoggiato l’intera suola erano attentissimi nel muovere il prossimo passo, quasi non volessero abbandonare quella posizione tanto faticosamente raggiunta", scrive Amos Oz nel suo nuovo libro appena pubblicato in Israele: Una storia d’amore e di buio (in Italia sarà tradotto da Feltrinelli).
I critici locali l’hanno già definito "il manifesto del mondo askenazita scomparso". Un mondo di personaggi sballottati da avvenimenti più grandi di loro, sradicati dall’antica tradizione ebraica dell’Europa centro-orientale, perseguitati dall’antisemitismo, sopravvissuti all’Olocausto e affacciati a un Medio Oriente sconosciuto, mitizzato nelle pagine della Bibbia e dei libri sacri letti da bambini nelle scuole religiose, eppure incapaci di ritrovare una propria identità matura nel nuovo Paese. "Mia nonna si faceva tre bagni al giorno. La sua esistenza a Gerusalemme si era trasformata in una gigantesca lotta contro i microbi. E certo vincevano sempre loro", scrive Oz per condensare le fobie, le paure, le ossessioni di questa gente che "voleva essere europea, anzi era europea a tutti gli effetti, ma che dall’Europa era stata rifiutata". Generazione di vinti. Sembrerebbe un’affermazione paradossale se si tiene conto che furono loro, i 600.000 ebrei residenti nei confini del Mandato Britannico al momento della guerra del 1948, a realizzare il sogno sionista della nascita di Israele nella "terra dei padri".
Ma le loro vite individuali furono spesso un inferno di nostalgie per il passato nella diaspora, memorie di famigliari rimasti nelle comunità di origine e spazzati via dalla furia nazista e le difficoltà molto tangibili del clima ostile nel nuovo Paese, la povertà, la guerra con gli arabi. "Sono nato a Gerusalemme nel 1939. Ma nella mia mente, sui miei libri, nelle storie che raccontava mia madre da piccolo, dominavano indisturbati la steppa russa, le neve degli inverni infiniti, la tundra con i cosacchi e gli orsi", ricorda Oz. La mamma, Fania Mussman, nata a Rovno (in Ucraina) da una famiglia di ricchi commercianti e intellettuali figli dell’Illuminismo, si suiciderà con i barbiturici non ancora quarantenne nella casa della sorella a Tel Aviv in preda a una inconsolabile crisi depressiva, "una piovosa notte" del gennaio 1952. Amos aveva 13 anni. Era figlio unico. Un dramma che lui ha cercato di raccontare più volte nei suoi romanzi precedenti. C’è chi ha affermato che la poetica di Oz sia in effetti il costante tentativo di tornare a narrare quel fatto. "Lo racconto per esorcizzarlo", ha detto lui stesso al Corriere qualche anno fa.
La differenza con quelli del passato è che questo libro non cerca finzioni. E’ la biografia dei primi vent’anni dell’autore, con lunghi flash back sulle famiglie dei genitori nella diaspora. Una saga famigliare che diventa il ritratto di un’intera generazione. Il diario dei creatori di Israele: sionisti spesso più per necessità che per scelta, emigrati loro malgrado, ansiosi di creare un mondo nuovo, ma terribilmente legati a quello vecchio.

Amos Oz

Amos Oz (1939-2018), scrittore israeliano, tra le voci più importanti della letteratura mondiale, ha scritto romanzi, saggi e libri per bambini e ha insegnato Letteratura all’Università Ben Gurion del Negev. …