Richard Ford: Nati in Mississippi o in Pakistan siamo tutti veri americani

13 Dicembre 2002
Non ricordo quando mi sono reso conto per la prima volta d'essere americano. Ho giurato fedeltà alla bandiera a 6 anni; a 18 mi sono registrato per la leva; a 20 mi sono arruolato nei Marines. Sono sicuro, tuttavia, che molto prima che accadesse ognuna di queste cose, ero abbastanza conscio d'essere, in primo luogo, uno del Mississippi, un meridionale, figlio di genitori che non venivano però dallo stato del Mississippi ma dall'Arkansas, e per questo sottilmente diversi da me . Tutte queste tipiche identità locali, naturalmente, presuppongono che io sia americano, proprio come la Repubblica, lo Stato e i principi che essa rappresenta contengono tutti gli altri. Quindi, qualunque cosa di me e della mia produzione che possa attribuire al mio essere meridionale eccetera, si può anche attribuire - per emanazione logica - all'essere americano.
Non ho mai trovato comodo giudicare un qualunque atteggiamento, comportamento personale, tratto del carattere, esperienza o convinzione come "tipicamente americano". Quando mi trovo in un altro Paese, e qualcuno che legge i miei libri mi domanda se la storia che ho scritto è tipicamente americana, obietto. E poi gli dico: "Immagina di sorvolare in elicottero una zona suburbana in America, e di vedere un tizio con un cappello che tosa il suo prato. Di sicuro, sarà l'americano tipico. Chi è? (Potremmo pensare di conoscerlo). Ma, quando ci avviciniamo e solleviamo il cappello dalla testa dell'uomo, scopriamo che è un pakistano, un immigrato, o un ghanese di terza generazione o un sino-americano. E che la strada che l'ha portato al suo prato, in quella cittadina, in quel giorno, dissipa ogni nozione di tipicità e ne rivela la tendenza a offuscare o ad escludere le qualità specifiche che non vi si attagliano. Ed è questo il punto che la maggior parte della grande letteratura cerca di provare: possiamo vedere con maggiore chiarezza guardando da vicino, e dovremmo farlo.
Se la mia esperienza di essere cresciuto nel Mississippi negli anni 50 si possa definire comunque più tipicamente americana dell'esperienza dell'immigrato pakistano è, naturalmente, discutibile. Io sono, come lo è lui, americano. La nostra esperienza è l'esperienza americana, o parte di essa: tumulti (nel mio caso), una complicata e ambivalente esperienza della cittadinanza, dell'identità nazionale e del regionalismo campanilistico, il tutto amalgamato in modo incompleto da un idealismo politico che molto include, mentre cerca di reprimere e coercire il meno possibile. (Può darsi debba convenire che l'immigrato e io abbiamo in comune più di quanto immaginassi).
Di conseguenza, mi sento sicuro solo di pochissime affermazioni. Ho sempre cercato di scrivere racconti e romanzi che rendessero testimonianza della natura del genere umano così come si mostra nel fuoco purificatore delle avversità, della disarmonia e degli interrogativi: amanti che cercano ma non riescono a trovare intimità, mutua comprensione, simpatia, consolazione; padri e figli, figli e madri che si vedono gli uni gli altri con bramosia ma in modo imperfetto, attraverso abissi d'incomprensione, che combattono con dimostrazioni improprie dell'affetto, che cercano d'incontrare l'altro faccia a faccia per dire quello che va detto. Erano queste le circostanze nelle quali arrivai a riconoscere cosa significasse essere americano: lotte per i diritti civili, il Vietnam, che spaccavano le famiglie; le purghe maccartiste, che spaccavano la nazione; le conseguenze della Depressione, la guerra mondiale, la prosperità degli anni Cinquanta.
Come seconda questione, ho agito per il bisogno e la libertà di scrivere in merito ai diversi personaggi, che non erano come me (donne, altre razze, altre nazionalità, bambini) nel tentativo di rispondere alla domanda americana fondamentale: in che modo siamo così diversi, e tuttavia così simili? Così ho scritto storie per rendere quest'ambivalenza tollerabile, interessante, persino bella e piacevole. Mi sono anche dedicato a una militanza su scala ridotta, nell'intimità, al livello più basso delle vite. E' stato sicuramente a quel livello, in una piccola famiglia, in una piccola città americana, lontano dai centri del potere e dalla retorica pubblica, che per la prima volta ho visto giusto e agito male. Ci fu però un momento in cui abbandonai il Sud, sul quale ero ferratissimo, per seguire soltanto la mia curiosità, e, presumendo che la mia intelligenza locale si sarebbe convertita a un pubblico americano più vasto, provai a prendere l'intero Paese come scenario e, più ottimisticamente, come soggetto.
E infine come scrittore, ho sempre ritenuto che l'America sia uno scenario al cui interno gli eventi e le azioni universalmente umane, con le loro motivazioni e conseguenze morali, potevano essere colte e capite nella loro importanza da qualsiasi punto del pianeta. L'esperienza umana in America, sebbene non sia un modello per il resto del mondo, sembrava almeno un'esperienza plausibile e degna di nota.
Giungo adesso frastornato a questo finale, pensando che sì, se queste influenze non avessero lavorato su di me per tutti questi anni, niente di me o di mio sarebbe lo stesso. Peraltro, naturalmente, non esisterebbe proprio niente di me: non si può togliere un termine cruciale dall'equazione e ottenere la stessa equazione. Braccio di Ferro non può essere il pilota di un jet o vendere azioni ed essere il Braccio di Ferro che amiamo.
Adesso c'è uno scrittore in Cecenia che scrive sull'influenza di, beh... della Cecenia sulle sue opere. E sta scrivendo lo stesso genere di cose che ho scritto io, o cose migliori. Bene, dico io. Perché se tutti questi anni passati a essere un americano mi avessero solo preparato a rendermi conto della mia affinità, della mia collegialità con qualcuno che non conoscerò mai, mi avessero messo in grado di vivere la saggezza più preziosa della letteratura - allora l'essere americano, non meno che uno scrittore, mi ha aiutato molto bene.

Richard Ford

Richard Ford, nato nel 1944 a Jackson (Mississippi), è considerato uno dei più grandi scrittori americani contemporanei. Con Il giorno dell’Indipendenza (1995; Feltrinelli, 1996) ha vinto i due premi più prestigiosi …