Umberto Galimberti: Una terapia dell´amore

14 Gennaio 2003
Che cosa c´è di più curioso e morboso che vedere il nascere, il crescere, l´aggrovigliarsi del pensiero analitico, che ipotizza il desiderio sessuale come primo motore delle vicende dell´anima, intorno alla follia di una donna che trasuda d´amore.
E che cosa c´è di più probabile che scorgere, al di sotto di tutte le differenze teoriche che divisero Jung da Freud, la contesa di una donna che, con la sua seduttività, affascina e crea le divergenze di pensiero. Macchine micidiali per mascherare la semplicità dei desideri.
E invece, nel film di Roberto Faenza, niente di tutto questo, grazie a dio, ma una splendida storia d´amore giocata sul registro platonico che, contrariamente a quanto questo aggettivo suggerisce nell´uso comune, è l´unico registro che, senza esitazione, iscrive l´amore nella follia e rubrica la follia tra i doni più alti che il dio possa concedere.
Nel film Freud non c´è, e quindi il pericolo di risolvere le divergenze teoriche tra Freud e Jung nel desiderio di una donna è scampato. Al posto di Freud c´è Bleuler, il grande Bleuler, ultimo esponente della psichiatria dei manicomi, dove la follia non parla, ma è attutita e resa silente dalle pratiche di contenimento e di costrizione.
Jung, allievo di Bleuler, sostituisce, nella cura con Sabina Spielrein, il metodo della costrizione con il metodo della parola che Freud aveva introdotto. Ma dire «parola» è dire accoglienza, sguardo, sollecitazione del cuore fino a quelle derive dove l´anima e il corpo faticano a riconoscere la loro artificiosa distinzione.
Jung ama Sabina e si perde nell´abisso della sua seduttività, che era il modo garbato con cui Sabina dava espressione alla sua follia, primo grido innocente che antecede tutte le parole e gradatamente sostituisce il grido di disperazione di chi è perso nella notte buia della follia.
Sabina riemerge grazie all´amore, la più antica e sicura macchina di guarigione, ma il suo riemergere si scontra con le convenzioni gelide e rigide che recingono il mondo, a cui Jung apparteneva, della borghesia che, prima di essere una classe sociale, è antropologicamente il regime dell´anaffettività. Qui il gioco si fa duro. I corpi si scompongono. I dubbi lacerano Jung, ma l´abbandono non inabissa Sabina. L´opera è stata fatta. Freud dovrà solo dare al suo fuoco non più incendiario cose buone da riscaldare per nuove fusioni.
In questa storia la psicoanalisi, che è terapia dell´amore, celebra la sua vittoria sulla psichiatria del contenimento e del degrado, ma incontra anche il suo enigma non risolto: che ne è del corpo in una terapia dell´amore? Le regole psicoanalitiche le conosciamo tutti. Ma tutti sappiamo anche che il linguaggio del corpo vien prima del linguaggio verbale, così come sappiamo che la follia, che disarticola tutti i linguaggi verbali, ha familiarità col corpo e le sue movenze espressive.
Per la psicoanalisi affrontare questo problema, il problema del corpo, è urgente, e guai se diventasse il rimosso della psicoanalisi. Meglio forse che resti il suo mistero, come misteriosa è la malattia della mente che Thomas Mann ne La montagna incantata così descrive: «Il sintomo della malattia è un travisamento dell´attività amorosa. Ogni malattia è una metamorfosi dell´amore».
Ma se l´amore è la cura, dove si collocano i limiti dell´amore? Non devono forse raggiungere gli abissi della follia, fin dove questi abissi arrivano, nella loro profondità? Il problema resta aperto e qui forse la psicoanalisi deve aggrovigliarsi nel suo nodo irrisolto.

Umberto Galimberti

Umberto Galimberti, nato a Monza nel 1942, è stato dal 1976 professore incaricato di Antropologia Culturale e dal 1983 professore associato di Filosofia della Storia. Dal 1999 è professore ordinario …