Antonio Tabucchi: La grammatica del vivere

11 Febbraio 2003
Amo il cinema di Almodóvar perché mi dà emozioni. Perché fa reagire i due emisferi nei quali è diviso il nostro cervello, quello destro e quello sinistro, la parte in cui funziona la Ratio (la cosiddetta logica di tipo matematico) e la parte in cui funzionano le emozioni. Emozioni senza le quali, come ha spiegato un grande scienziato, il neurologo americano di origine portoghese Antonio Damasio (vedi in italiano L´errore di Cartesio: emozione, ragione e cervello umano, Milano 1995), la tanto celebrata logica, il pensiero razionale, il "Cogito ergo sum" di Descartes, sarebbe ben poca cosa: noi procederemmo a tentoni nella nostra implacabile logica, che avrebbe lo stesso meccanismo (e la stessa logica) se dovessimo applicarla sia a organizzare le nostre vacanze come a pianificare lo sterminio della nostra famiglia.
Ma, a proposito, la vita, in sé, ha una logica? Questione difficile. Lì per lì saremmo tentati di dire di no. La vita si verifica. Accade, è. Una logica, eventualmente, gliela diamo noi, formulandola in termini narrativi. Cioè, raccontandola o raccontandocela. Ma, anche raccontandocela, essa forse non avrebbe logica se non dessimo un senso agli eventi di cui è scandita grazie alle emozioni che tali eventi suscitano in noi.
Pedro Almodóvar ha sempre saputo raccontare la vita formulandola in termini cinematograficamente narrativi, e coniugando la fenomenologia degli eventi con l´emozione che essi necessariamente recano con loro.
In tal senso egli si oppone alla tendenza attuale dedita a quello che chiamerei l´"Illuminismo banalizzato". Un sotto-illuminismo che ha reso innocuo il vero senso del libertinaggio intellettuale (quello concepito nel Settecento per far esplodere le contraddizioni fra ragione e sentimento) degradandolo in libertinismo, e dove la sofferenza di Sade è degradata in sadismo, il tradimento è degradato in inganno, la forza sovversiva della passione è degradata in un riuscire a farla franca, magari per aggiustare l´equilibrio coniugale in un´epoca di crisi della coppia.
Di questo labor (lo uso volutamente nell´accezione dell´ora et labora dei monaci benedettini, che seppero ricopiare i testi greci e latini sulle più antiche passioni umane con la disciplina e l´umiltà di chi vuole tramandarle a un´epoca che sarà dominata dalla logica Ratio), Habla con ella ("Parla con lei") mi sembra un perfetto esempio cinematografico. Con l´umile e geniale attenzione di chi guarda alle passioni umane per coniugarle nella imperscrutabile logica della vita, Almodóvar visita la vasta iride dell´arcobaleno della nostra anima: dolore, mestizia, affettuosità, nostalgia, disforia, irreprimibile impulso a comunicare, frustrazioni del silenzio.
Ma questo straordinario film è anche e soprattutto una sorta di grammatica sulla logica narrativa della vita. Non quella visibile, raccontabile, ma quella che di solito elidiamo perché ci sembra trascurabile. Perché, di solito, della vita noi tendiamo a raccontarci o a spiegarci il nostro "ora", cioè quello che succede, quello che stiamo vivendo, e non ciò che abbiamo attraversato per arrivare a questo "ora" che stiamo vivendo. Habla con ella racconta invece "il prima". Non la vita che abbiamo, ma i suoi prodromi: e cioè le ragioni grazie alle quali noi abbiamo la vita che abbiamo, cosa a cui di solito non pensiamo. Parla con lei segue la imperscrutabile logica della vita, la sua cabbala, la sua inclassificabile arte combinatoria fatta in gran parte di caso, in alcuni momenti di necessità, spesso di desiderio, di ragioni e non-ragioni, di ponderabilità che dipendono dall´imponderabile, di calcoli che sfuggono al calcolo delle probabilità, alle ottimistiche misurazioni che noi vorremmo appartenessero a Euclide o ad Archimede, e invece non ubbidiscono alle leggi della geometria e della fisica. Perché la vita ubbidisce ad altre leggi, e non si imprigiona in una formula matematica.
Così, nel film, noi seguiamo le vicissitudini dei personaggi, soffriamo con loro, compatiamo le loro peripezie, i loro sentimenti. E arriviamo alla fine del film. Ah, diciamo, il film ora è finito, era davvero un bel film, quante emozioni ci ha dato. E invece no, ce ne accorgiamo quando le luci si accendono e dobbiamo uscire dalla sala. Il vero film deve ancora cominciare, perché il protagonista e la protagonista, per tutta quella serie di combinazioni che il film di Almodóvar ci ha raccontato, riescono finalmente a incontrarsi. Il vero film comincia allora. Ma ora dobbiamo uscire dalla sala, sta per cominciare un altro spettacolo. Il vero film è la vita che dal momento del loro incontro in poi i protagonisti dovranno vivere. Quella, Pedro Almodóvar non ce la racconta. Perché quella vita ci aspetta fuori, all´uscita del cinema. Forse ce la racconterà lei stessa domani.

Antonio Tabucchi

Antonio Tabucchi (Pisa, 1943 - Lisbona, 2012) ha pubblicato Piazza d’Italia (Bompiani, 1975), Il piccolo naviglio (Mondadori, 1978), Il gioco del rovescio (Il Saggiatore, 1981), Donna di Porto Pim (Sellerio, 1983), Notturno indiano (Sellerio, 1984), I volatili del Beato Angelico (Sellerio, 1987), Sogni …