Edward W. Said: Gli arabi e l’impero

03 Giugno 2003

Mi sembra che oggi, agli occhi di molti arabi, quello che è successo in Iraq negli ultimi mesi sia poco meno di una catastrofe. È vero, il regime di Saddam Hussein era orribile sotto ogni punto di vista e meritava di essere rovesciato. Ed è anche vero che probabilmente molti provano un senso di rabbia pensando a quanto fosse crudele e dispotico quel regime e alle tremende sofferenze del popolo iracheno.
È evidente che tanti, troppi governi e individui hanno collaborato a mantenere Saddam al potere continuando a guardare dall’altra parte e a farsi gli affari loro. Tuttavia, ciò che ha consentito agli Stati Uniti di bombardare l’Iraq e distruggerne il governo non è stato né un diritto morale, né un’argomentazione razionale, ma solo la potenza militare pura e semplice. Dopo aver spalleggiato per anni l’Iraq baathista e lo stesso Saddam Hussein, Stati Uniti e Gran Bretagna si sono arrogati il diritto di negare la loro complicità, per poi annunciare di voler liberare l’Iraq dalla tirannide. Ma quello che si sta profilando ora in quel paese è una gravissima minaccia per il popolo arabo nel suo complesso.
È quindi della massima importanza ricordare prima di tutto che, malgrado le loro divisioni e le loro dispute, gli arabi sono un popolo e non un’accozzaglia di paesi passivamente disponibili a un intervento o a una dominazione dall’esterno. C’è una chiara continuità imperialista dal dominio ottomano del sedicesimo secolo ai giorni nostri. Dopo gli ottomani, con la prima guerra mondiale, sono venuti gli inglesi e i francesi e poi, in seguito alla seconda guerra mondiale, sono arrivati gli Stati Uniti e Israele.
Uno dei filoni più pericolosi e influenti del pensiero orientalista degli americani e degli israeliani – molto evidente nella loro politica fin dalla fine degli anni quaranta – è l’ostilità profonda nei confronti del nazionalismo arabo. La premessa fondamentale del nazionalismo arabo in senso lato è che, pur con tutta le loro diversità, i popoli di lingua e di cultura arabe e musulmane costituiscono una nazione e non solo un insieme di stati sparpagliati tra il Nordafrica e i confini occidentali dell’Iran.

L’unione fa la forza
Ogni tentativo di esprimere questa premessa è stato attaccato apertamente: durante la guerra di Suez del 1956, nella guerra coloniale della Francia contro l’Algeria, nelle guerre d’occupazione israeliane e ultimamente nell’attacco contro l’Iraq, il cui scopo ufficiale era quello di rovesciare un regime, ma il cui vero obiettivo era distruggere il più potente paese arabo. Se la campagna militare francese, britannica, israeliana e americana contro il presidente egiziano Nasser era concepita per sconfiggere una forza che dichiarava apertamente la sua aspirazione a unificare gli arabi in una sola entità politica indipendente e forte, allo stesso modo oggi l’obiettivo degli Stati Uniti è ridisegnare la carta geografica del mondo arabo per adeguarla ai propri interessi.
La politica degli Stati Uniti trae vantaggio dalla frammentazione, dall’immobilismo collettivo e dalla debolezza militare ed economica del mondo arabo. Non voglio dire che il nazionalismo di alcuni stati arabi o una loro specificità ideologica – che si tratti dell’Egitto, della Siria, del Kuwait o della Giordania – siano meglio di un progetto di cooperazione interaraba in materia economica, politica e culturale. E di sicuro non ritengo necessaria un’integrazione totale. Dico però che qualsiasi forma di cooperazione sarebbe meglio di quei vergognosi incontri al vertice che hanno sfigurato la nostra vita nazionale durante la crisi irachena. Ogni arabo, così come ogni straniero, si chiede: perché i paesi arabi non mettono mai in comune le loro risorse per quelle cause che, almeno ufficialmente, dichiarano di sostenere, quelle cause in cui i loro popoli credono – nel caso dei palestinesi – in modo così appassionato?
Non perderò tempo a sostenere che gli abusi, gli sprechi, la repressione e la follia di tutto ciò che è stato fatto per promuovere il nazionalismo arabo abbiano una giustificazione. I fatti parlano chiaro. Tuttavia voglio affermare categoricamente che, fin dall’inizio del ventesimo secolo, gli arabi non sono mai riusciti a conquistare né tutta né in parte la loro indipendenza collettiva proprio a causa dei progetti delle potenze straniere sulle loro terre, così strategicamente importanti. Oggi nessuno stato arabo è libero di disporre delle sue risorse come vuole, né di difendere i suoi interessi, soprattutto se questi interessi sembrano minacciare gli obiettivi politici degli Stati Uniti.
Da quando sono diventati una potenza mondiale, e ancor più dopo la fine della guerra fredda, gli Stati Uniti hanno orientato la loro politica mediorientale solo ed esclusivamente in base a due principi: la difesa di Israele e il libero flusso del petrolio arabo. Entrambi implicavano una contrapposizione diretta al nazionalismo arabo. Significativamente, e con poche eccezioni, la politica americana ha mostrato disprezzo e aperta ostilità nei confronti delle aspirazioni degli arabi. E nonostante questo, dall’uscita di scena di Nasser sono stati ben pochi i governanti arabi che l’hanno messa in discussione. Anzi, hanno accettato tutto ciò che veniva loro richiesto.

La diffidenza non paga
Nei periodi di massima pressione (per esempio durante l’invasione israeliana del Libano nel 1982, o con le sanzioni all’Iraq, i bombardamenti della Libia e del Sudan o le minacce alla Siria), la debolezza collettiva dei governi arabi è stata sbalorditiva. Né la loro colossale potenza economica collettiva, né la volontà dei loro popoli li ha indotti al minimo gesto di sfida. La politica imperialista del divide et impera ha regnato incontrastata: ogni governo sembra timoroso di danneggiare i suoi rapporti con gli Stati Uniti, e questa considerazione ha preso il sopravvento su ogni altra esigenza. Alcuni paesi arabi fanno affidamento sugli aiuti economici, altri sulla protezione militare di Washington. Ma tutti hanno deciso di non fidarsi gli uni degli altri. Preferiscono l’atteggiamento sprezzante degli americani. Anzi – ed è davvero significativo – i paesi arabi sono stati più pronti a lottare tra loro che a combattere i veri aggressori esterni.
Oggi, dopo l’invasione dell’Iraq, il risultato è una nazione araba gravemente demoralizzata, avvilita e umiliata, capace solo di accettare passivamente i progetti americani di ridisegnare la carta geografica del Medio Oriente in base ai loro interessi e ovviamente a quelli israeliani. Per quanto grandiosi, questi progetti non hanno ancora ricevuto neanche la più vaga risposta collettiva dagli stati arabi. Questi se ne stanno lì ad aspettare che succeda qualcosa di nuovo mentre Bush, Rumsfeld, Powell e gli altri passano da una minaccia a un progetto, da una visita a un affronto, da un bombardamento a un annuncio unilaterale.

La truffa della road map
Cosa prova un palestinese quando vede un dirigente di secondo piano come Abu Mazen, che è sempre stato un fedele sottoposto di Arafat, abbracciare Colin Powell e gli americani, mentre anche un bambino capirebbe che la road map è concepita per: a) fomentare una guerra civile palestinese e b) ottenere l’adesione dei palestinesi alle richieste israelo-americane di "riforme" in cambio di quasi nulla? Quanto ancora possiamo cadere in basso?
Veniamo ai piani statunitensi per l’Iraq. È assolutamente chiaro, ormai, che stiamo per assistere a un’occupazione in puro stile coloniale, simile a quella attuata da Israele dal 1967 in poi. L’idea di portare in Iraq una democrazia all’americana significa fondamentalmente allineare il paese alla politica statunitense, e cioè: trattato di pace con Israele, mercati petroliferi per i profitti americani e ordine pubblico a un livello minimo, tale da non consentire né una vera opposizione né un vero apparato istituzionale. Forse c’è perfino l’idea di trasformare l’Iraq nel Libano dei tempi della guerra civile. Ma non ne sono del tutto certo. Prendiamo però un piccolo esempio del tipo di pianificazione che è stata avviata. Ultimamente la stampa statunitense annunciava che un professore associato della facoltà di legge di New York, il trentaduenne Noah Feldman, era stato incaricato di scrivere la nuova costituzione dell’Iraq. Negli articoli che parlavano di questa importante designazione si leggeva che Feldman è un grande esperto di diritto islamico, che studia l’arabo dall’età di quindici anni e viene da una famiglia di ebrei ortodossi. Però non ha mai fatto pratica legale nel mondo arabo, non è mai stato in Iraq e a quanto pare non ha alcuna esperienza dei problemi del dopoguerra iracheno. Che affronto non soltanto all’Iraq, ma anche alle schiere di esperti di diritto arabi e musulmani che avrebbero potuto fare un ottimo lavoro al servizio del futuro dell’Iraq! Macché: l’America vuole affidarlo a un giovanotto di belle speranze, per poi poter dire: "Noi abbiamo dato all’Iraq la sua nuova democrazia". È un disprezzo così grossolano che si taglia con il coltello.
Di fronte a tutto questo gli arabi sembrano impotenti. E non soltanto perché non è stato fatto alcun tentativo di dare una risposta unitaria. Quello che sorprende chi, come me, riflette sulla situazione dall’esterno, è che in questo momento di crisi i governanti arabi non abbiano rivolto nessun appello ai loro cittadini per chiedere aiuto contro una minaccia comune. Gli strateghi militari americani non hanno fatto mistero di volere un cambiamento radicale del mondo arabo. Questo cambiamento possono imporlo con la forza delle armi perché l’opposizione è quasi nulla. Inoltre dietro questo disegno sembra esserci l’idea di distruggere l’unità di fondo degli arabi una volta per tutte, stravolgendo in modo irrimediabile le basi della loro vita e delle loro aspirazioni.

Responsabilità multiple
Pensavo che l’unico deterrente possibile nei confronti di un simile sfoggio di potenza fosse un’alleanza senza precedenti fra governi e popoli arabi. Ma ovviamente per far questo occorrerebbe che ogni governo arabo facesse lo sforzo di aprirsi alla società civile, di accoglierla, cancellando tutte le misure repressive per dar vita a un’opposizione organizzata al nuovo imperialismo. Un popolo costretto alla guerra o al silenzio non sarà mai all’altezza di questa situazione. Dobbiamo finalmente vedere le società arabe liberate da questo stato d’assedio fra governanti e governati che si sono autoimposte. Perché invece non aprire la porta alla democrazia in difesa della libertà e dell’autodeterminazione? Bisogna dire: "Vogliamo che ogni cittadino disposto a impegnarsi faccia fronte comune contro il nemico comune. Abbiamo bisogno di ogni forza intellettuale e politica per opporci insieme al disegno imperialista che vuole stravolgere la nostra vita senza il nostro consenso". Perché bisogna lasciare la resistenza agli estremisti e ai disperati attentatori suicidi?
Apro una parentesi. Leggendo il rapporto dell’Undp (il Programma delle nazioni unite per lo sviluppo) sul mondo arabo nel 2002, sono rimasto colpito dalla scarsa attenzione che riserva agli interventi imperialisti nel mondo arabo e ai loro effetti a lungo termine. Non penso certo che tutti i nostri problemi vengano dall’esterno, ma non direi neanche che li abbiamo creati tutti noi. Un ruolo importante lo hanno svolto anche il contesto storico e la frammentazione politica, e su questi il rapporto dell’Undp si sofferma troppo poco. L’assenza di democrazia è in parte il risultato di alleanze tra potenze occidentali e regimi o partiti di minoranza che governavano i paesi arabi. Questo non perché gli arabi non fossero interessati alla democrazia, ma perché la democrazia era vista come una minaccia dai diversi protagonisti della scena politica araba. E poi: perché adottare la ricetta americana della democrazia (usata il più delle volte come un eufemismo per indicare il libero mercato e la scarsa attenzione per i diritti umani e civili fondamentali) come se fosse l’unica?
Ma torniamo alla mia tesi centrale. Si pensi a quanto poteva essere più efficace la posizione dei palestinesi oggi, sotto l’attacco americano-israeliano, se il mondo arabo avesse dato prova di unità, anziché ridursi a litigare in maniera indecorosa sui membri della delegazione che doveva incontrare Colin Powell. Sono anni che non riesco a capire perché i leader palestinesi siano incapaci di darsi una strategia unitaria per contrastare l’occupazione, senza lasciarsi fuorviare dall’adesione a questo o quel piano, firmato da Mitchell, da Tenet o dal Quartetto. È ora di dire a tutti i palestinesi: "Siamo di fronte a un nemico i cui progetti sulla nostra terra e sulla nostra vita sono ben noti e dobbiamo combatterli tutti insieme".
Il problema principale (dovunque, non soltanto in Palestina) è la frattura di fondo fra governanti e governati, che è uno dei frutti bacati dell’imperialismo. È la paura profonda della partecipazione democratica, come se troppa libertà potesse alienare all’élite dominante le simpatie dell’autorità imperialista. Il risultato non è solo l’assenza di una mobilitazione collettiva, ma il perpetuarsi della frammentazione. La situazione attuale è che oggi, nel mondo arabo, ci sono troppi cittadini arabi indifferenti o esclusi dalla partecipazione.

Un’alternativa
Piaccia o no, oggi gli arabi sono di fronte a un attacco generalizzato al loro futuro, mosso da una potenza imperiale – gli Stati Uniti – che agisce d’accordo con Israele per metterci a tacere, tranquillizzarci e ridurci a una serie di feudi in guerra l’uno contro l’altro e impegnati a fare gli interessi non dei loro popoli, ma quelli della grande superpotenza e del suo surrogato locale. Non capire che questo conflitto condizionerà la nostra regione ancora per molti anni significa tapparsi gli occhi. Adesso bisogna spezzare le catene che imprigionano le società arabe e le trasformano in un groviglio di scontento fatto di cittadini disillusi, di leader insicuri e di intellettuali alienati.
La crisi di oggi è senza precedenti, quindi per affrontarla occorrono mezzi senza precedenti. Il primo passo da fare è capire fino in fondo la portata del problema, e poi agire per superare ciò che oggi ci riduce a una rabbia impotente o a una reazione marginale, entrambe inaccettabili. Cercare un’alternativa a questa triste condizione può offrire molte più speranze.

Edward W. Said

Edward W. Said è nato nel 1935 a Gerusalemme ed è morto a New York il 25 settembre 2003. Esiliato da adolescente in Egitto e poi negli Stati Uniti, è …