Jürgen Habermas: L´Europa alla ricerca dell´identità perduta

04 Giugno 2003
Due date non possiamo dimenticare: non il giorno nel quale i giornali comunicarono ai loro sconcertati lettori la dichiarazione di lealtà a Bush che il primo ministro spagnolo aveva fatto sottoscrivere ai governi europei favorevoli alla guerra, alle spalle degli altri colleghi dell´Unione. Ma nemmeno il 15 febbraio 2003, quando le manifestazioni di massa a Londra, Roma, Madrid e Barcellona, Berlino e Parigi reagirono a questo colpo di mano. La contemporaneità di queste gigantesche dimostrazioni - le più grandi dalla fine della seconda guerra mondiale - potrebbe essere indicata retrospettivamente nei libri di storia come il segnale della nascita di un´opinione pubblica europea.
Durante i mesi di piombo precedenti lo scoppio della guerra in Iraq una divisione del lavoro moralmente oscena aveva scosso le coscienze. La grande operazione logistica dell´inarrestabile spiegamento di forze militari e la febbrile operosità delle organizzazioni di soccorso umanitario si innestarono l´una nell´altra come ruote dentate. Lo spettacolo si svolse senza interruzioni anche sotto gli occhi della popolazione irachena, che - privata di qualsiasi possibilità di iniziativa - ne sarebbe stata la vittima. Senza dubbio, la forza dei sentimenti ha rimesso in piedi i cittadini europei. Nello stesso tempo, però, la guerra ha reso gli europei consapevoli del fallimento, profilatosi da lungo tempo, della loro politica estera comune. Come in tutto il mondo, la disinvolta violazione del diritto internazionale ha acceso anche da noi in Europa una polemica sul futuro dell´ordine internazionale. Ma gli argomenti contrapposti ci hanno coinvolto più profondamente.
In occasione di questa polemica le ben note linee di frattura si sono solo fatte più evidenti. Le prese di posizione controverse sul ruolo della superpotenza, sul futuro ordine mondiale, sulla rilevanza del diritto internazionale e dell´Onu hanno fatto sì che i contrasti latenti si manifestassero apertamente. La spaccatura tra paesi continentali e paesi anglosassoni da un lato e, dall´altro, tra la «vecchia Europa» e i candidati dell´Europa centro-orientale all´ingresso nell´Unione, si è approfondita.
In Gran Bretagna la special relationship con gli Stati Uniti non è affatto esente da contestazioni, ma continua a stare al primo posto nell´ordine delle priorità di Downing Street. E i paesi dell´Europa centro-orientale aspirano, certo, a entrare nell´Unione europea, ma non per questo sono senz´altro disposti a vedere limitata la propria sovranità, da così poco tempo riconquistata. La crisi dell´Iraq è stata soltanto il catalizzatore. Anche nella Convenzione per la costituzione europea di Bruxelles si manifesta il contrasto tra le nazioni che vogliono davvero un rafforzamento dell´Unione europea e quelle che hanno un interesse comprensibile a congelare lo status quo dell´attuale gestione intergovernativa dell´Unione o al massimo a modificarla con interventi di pura cosmesi istituzionale. Ora il contrasto non può più essere ignorato.
La futura costituzione ci darà un ministro degli Esteri europeo. Ma a che serve una nuova carica, se i governi non si uniscono in una politica comune? Anche un Fischer con una qualifica diversa resterebbe impotente come Solana. Per il momento solo gli stati membri appartenenti al «nocciolo duro» sono disposti ad attribuire all´Unione europea certi caratteri statali. Che fare, se solo questi paesi riescono a trovare un´unità sulla definizione dei «propri interessi»? Se l´Europa non vuole andare in frantumi, questi paesi devono ora far uso del meccanismo, messo a punto a Nizza, della «collaborazione rafforzata», per dare inizio a una comune politica estera, della sicurezza e della difesa in "un´Europa a diverse velocità». Ne deriverà un effetto vortice al quale non potranno sottrarsi gli altri paesi membri - a cominciare da quelli della zona euro. Nel quadro della futura costituzione europea non può e non deve esserci nessun separatismo. Andare avanti non significa escludere. L´Europa avanguardistica del «nocciolo duro» non può rattrappirsi in una piccola Europa; deve piuttosto - come è spesso accaduto - fare da locomotiva. Gli stati membri dell´Unione europea che cooperano più strettamente apriranno le porte già per il proprio interesse. Attraverso queste porte i paesi invitati entreranno tanto più facilmente, quanto prima il «nocciolo duro» dell´Europa sarà capace di agire anche verso l´esterno e dimostrerà che in una società mondiale complessa non contano soltanto le armate, ma anche il potere soffice dei negoziati, delle relazioni e dei vantaggi economici.
In questo mondo non vale la pena di semplificare la politica fino a ridurla all´alternativa tanto stupida quanto costosa di guerra e pace. L´Europa deve far sentire il suo peso sul piano internazionale e nel quadro dell´Onu, per bilanciare l´unilateralismo egemonico degli Stati Uniti. Ai vertici dell´economia mondiale e nelle istituzioni dell´Organizzazione per il commercio mondiale, della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale dovrebbe far sentire la sua influenza contribuendo a tracciare le linee di una futura politica interna mondiale.
Tuttavia, la politica di un ulteriore ampliamento dell´Unione europea trova oggi i suoi limiti negli strumenti della gestione amministrativa. Finora le riforme hanno tratto impulso dagli imperativi funzionali della creazione di un´area economica e monetaria comune. Queste forze motrici si sono esaurite. Una politica progettuale, che non esiga dagli stati membri soltanto la rimozione degli ostacoli alla concorrenza, ma anche una volontà comune, è attenta alle idee e al modo di sentire dei cittadini stessi. Le deliberazioni a maggioranza circa le scelte e gli orientamenti più impegnativi in politica estera possono essere accettate solo se le minoranze perdenti sono solidali. Questo però implica un sentimento di appartenenza politica. Le popolazioni devono in certo modo «accrescere» le loro identità nazionali, estendendole a una dimensione europea. La solidarietà ancor oggi piuttosto astratta tra cittadini di uno stato, che si limita agli appartenenti alla propria nazione, in futuro dovrà allargarsi ai cittadini europei di altre nazioni.
Tutto questo solleva la questione dell´»identità europea». Solo la consapevolezza di un destino politico comune e la convincente prospettiva di un futuro comune può far sì che la volontà della maggioranza non tolga la voce alle minoranze sconfitte. In linea di principio i cittadini di una nazione devono considerare la cittadina di un´altra nazione come «una di noi». Questo auspicio porta alla questione sulla quale si sono levate tante voci scettiche: ci sono esperienze storiche, tradizioni e conquiste che fondano per i cittadini europei la coscienza di un destino politico che li ha accomunati e al quale essi devono dar forma in comune? Una «visione» attraente o addirittura contagiosa di un´Europa futura non cade dal cielo. Oggi può nascere soltanto da un´inquietante sensazione di disorientamento. Ma può anche essere l´esito dell´imbarazzo prodotto da una situazione nella quale noi europei siamo rimandati a noi stessi. E deve articolarsi nella cacofonia selvaggia di un´opinione pubblica a molte voci. Se finora questo tema non è mai stato all´ordine del giorno, noi intellettuali abbiamo fallito.

Insidie di un´identità europea
È facile unirsi su ciò che non è vincolante. E tutti hanno davanti agli occhi l´immagine di un´Europa pacifica, cooperativa, aperta ad altre culture e capace di dialogare. Noi salutiamo l´Europa che nella seconda metà del ventesimo secolo ha trovato soluzioni esemplari per due problemi. In primo luogo, l´Unione europea oggi si propone come una forma di «governo al di là dello stato nazionale», che potrebbe fare scuola nella costellazione postnazionale. In secondo luogo, anche i modelli europei di stato sociale sono stati per lungo tempo esempi da imitare. Sul piano dello stato nazionale, oggi sono sulla difensiva. Ma una futura politica di addomesticamento del capitalismo in spazi senza confini non può ricadere dietro i criteri di giustizia sociale che essi hanno fissato. Perché l´Europa, che è stata capace di venire a capo di due problemi di queste proporzioni, non dovrebbe affrontare anche la sfida ulteriore di difendere e portare avanti un ordine cosmopolitico sulla base del diritto internazionale, contro progetti concorrenti?
Un discorso ordito su scala europea dovrebbe però incontrarsi con orientamenti già esistenti, che in certo modo attendono di essere stimolati da un processo di autocomprensione. Due dati di fatto sembrano contraddire questa audace ipotesi. Le più importanti conquiste storiche dell´Europa non hanno forse perduto la loro forza di creare un´identità proprio in seguito al loro successo mondiale? E cosa deve tenere insieme una parte del mondo che come nessun´altra si caratterizza per la persistente rivalità tra nazioni orgogliose della propria identità?
Poiché il cristianesimo e il capitalismo, la scienza e la tecnica, il diritto romano e il codice napoleonico, la forma di vita urbana e borghese, la democrazia e i diritti umani, la secolarizzazione dello Stato e della società si sono diffusi ad altri continenti, queste conquiste non costituiscono più una peculiarità. La fisionomia spirituale occidentale, che si radica nella tradizione ebraico-cristiana, possiede certo tratti caratteristici. Ma anche questa impostazione spirituale, connotata dall´individualismo, dal razionalismo e dall´attivismo, è condivisa dalle nazioni europee con gli Stati Uniti, il Canada e l´Australia. L´Occidente come orizzonte spirituale abbraccia ben più che la sola Europa.
Inoltre, l´Europa consiste di Stati nazionali che si delimitano polemicamente l´uno rispetto all´altro. La coscienza nazionale, che riceve la sua impronta dalle lingue, dalle letterature e dalle storie nazionali, ha per lungo tempo agito come un materiale esplosivo. Tuttavia, in reazione alla forza distruttiva di questo nazionalismo hanno preso forma dei modelli di mentalità che dal punto di vista dei non europei danno un volto tutto suo all´Europa odierna, nella sua incomparabile, vasta pluralità culturale. Una cultura che da molti secoli, attraverso conflitti tra città e campagna, o tra poteri religiosi e poteri secolari, attraverso la concorrenza tra fede e sapere, la lotta tra i detentori del dominio politico e le classi antagoniste è stata lacerata più di tutte le altre culture, non ha potuto fare a meno di apprendere nel dolore come le differenze possano comunicare, i contrasti possano essere istituzionalizzati e le tensioni possano essere stabilizzate. Anche il riconoscimento delle differenze - il reciproco riconoscimento dell´altro nella sua alterità - può diventare il contrassegno di un´identità comune.
La pacificazione dei conflitti di classe operata dallo stato sociale e l´autolimitazione della sovranità statale nel quadro dell´Unione europea sono solo gli esempi più recenti di tutto ciò. Nel terzo quarto del ventesimo secolo l´Europa al di qua della cortina di ferro ha vissuto, secondo le parole di Eric Hobsbawm, la sua «età dell´oro». Da allora sono riconoscibili i tratti di una mentalità politica comune, sicché spesso gli altri vedono in noi l´europeo anziché il tedesco o il francese - e questo non solo a Hong Kong, ma perfino a Tel Aviv. È proprio vero: rispetto ad altre parti del mondo, nelle società europee la secolarizzazione è progredita di molto. Qui i cittadini considerano con sospetto gli sconfinamenti tra politica e religione. Gli europei hanno una fiducia relativamente grande nelle prestazioni organizzative e nelle capacità gestionali dello Stato, mentre sono scettici rispetto all´efficienza del mercato. Essi possiedono un senso spiccato della «dialettica dell´illuminismo», non nutrono nei confronti dei progressi tecnici aspettative incrollabilmente ottimistiche. Sono portati a preferire le garanzie di sicurezza dello Stato sociale o i sistemi di regolazione solidale. La soglia di tolleranza rispetto all´esercizio della violenza sulle persone è comparativamente bassa. Il desiderio di un ordine internazionale multilaterale e giuridicamente regolato si lega alla speranza in una effettiva politica interna mondiale nel quadro di un´Onu riformata.
La costellazione che ha consentito ai favoriti europei occidentali di sviluppare questa mentalità all´ombra della guerra fredda si è dissolta dal 1989-´90. Ma il 15 febbraio dimostra che la mentalità è sopravvissuta anche al suo contesto di origine. Questo spiega anche perché la «vecchia Europa» si vede sfidata dalla risoluta politica egemonica della superpotenza alleata. E perché così tanti che in Europa salutano la caduta di Saddam come una liberazione respingono il carattere di violazione del diritto internazionale assunto dall´invasione unilaterale, preventiva, tanto sconcertante quanto insufficientemente motivata. Ma quanto è stabile questa mentalità? Ha radici in esperienze e tradizioni storiche profonde?
Oggi sappiamo che molte tradizioni politiche che rivendicano autorità in forza di un´apparente naturalità sono state «inventate». Invece, un´identità europea che nascesse alla luce dell´opinione pubblica sarebbe già in partenza qualcosa di costruito. Ma solo se fosse costruita in modo arbitrario porterebbe la macchia della pura e semplice convenzione. La volontà etico-politica che si afferma nell´ermeneutica dei processi di autocomprensione non è arbitrio. La distinzione tra l´eredità alla quale diamo inizio e quella che vogliamo respingere esige tanta cautela quanto la decisione sul tipo di lettura in base al quale ci appropriamo della prima. Le esperienze storiche si candidano solo a un´appropriazione consapevole, senza di cui non ottengono la forza di creare un´identità. Per finire, qualche spunto su queste esperienze «candidate», alla luce delle quali la mentalità europea postbellica potrebbe acquisire un profilo più netto.

Radici storiche di un profilo politico
Il rapporto tra Stato e Chiesa nell´Europa moderna si è sviluppato in modo diverso al di qua e al di là dei Pirenei, a nord e a sud delle Alpi, a ovest e a est del Reno. La neutralità del potere statale circa le visioni del mondo ha ricevuto una configurazione giuridica differente in ciascuno dei vari paesi europei. Ma ovunque all´interno della società civile la religione assume una analoga posizione impolitica. Anche se per altri aspetti si può deplorare questa privatizzazione sociale della fede, essa ha per la cultura politica una conseguenza desiderabile. Dalle nostre parti si fa fatica a immaginare un presidente che affronta i suoi impegni ufficiali quotidiani iniziando con una preghiera pubblica e che collega le sue decisioni politiche più impegnative a una missione divina.
In Europa, l´emancipazione della società civile dalla tutela di un regime assolutistico non corrispose ovunque alla presa di possesso e alla trasformazione democratica del moderno stato amministrativo. Ma l´irradiazione ideale della Rivoluzione francese su tutta l´Europa spiega, tra l´altro, perché qui alla politica in entrambe le sue configurazioni - sia come medium della garanzia di libertà che come potere organizzativo - sia stata assegnata una funzione positiva. Invece, l´affermazione del capitalismo è andata di pari passo con aspri contrasti di classe. Questo ricordo impedisce anche una valutazione non prevenuta del mercato. Il diverso giudizio su politica e mercato può rafforzare negli europei la fiducia sulla capacità ordinatrice di uno stato che opera come un fattore di civiltà, dal quale si attendono anche il rimedio ai «guasti del mercato».
Il sistema dei partiti uscito dalla Rivoluzione francese è stato spesso copiato. Ma solo in Europa esso è anche al servizio di una competizione ideologica che sottopone le patologie sociali causate dalla modernizzazione capitalistica a una continua valutazione politica. Questo richiede sensibilità da parte dei cittadini per i paradossi del progresso. Il conflitto tra interpretazioni conservatrici, liberali e socialiste comporta che si soppesi una questione: le perdite determinate dalla disintegrazione delle forme di vita tradizionali e protettive superano i guadagni di un progresso chimerico? Oppure i benefici prefigurati oggi per domani dai processi di distruzione creativa superano i dolori dei perdenti della modernizzazione?
In Europa le differenze di classe che hanno perdurato tanto a lungo sono state percepite da coloro che ne erano colpiti come un destino che poteva essere cambiato solo con l´agire collettivo. Così, nel contesto dei movimenti dei lavoratori e delle tradizioni cristiano-sociali si è affermato un ethos solidaristico della lotta per «più giustizia sociale», mirante a un´assistenza uniforme, contro l´ethos individualistico di una giustizia conforme alle prestazioni, che reca con sé stridenti disuguaglianze sociali.
L´Europa attuale è contrassegnata dalle esperienze dei regimi totalitari del ventesimo secolo e dall´Olocausto - la persecuzione e l´annientamento degli Ebrei europei, nella quale il regime nazista ha coinvolto anche le società dei paesi conquistati - . Le discussioni autocritiche su questo passato hanno richiamato alla memoria i fondamenti morali della politica. Una più alta sensibilità per le lesioni dell´integrità personale e fisica si riflette tra l´altro nel fatto che il Consiglio europeo e l´Unione europea hanno posto come condizione di ammissibilità nell´Unione stessa la rinuncia alla pena di morte.
Un passato bellicista ha a suo tempo trascinato tutte le nazioni europee in conflitti sanguinosi. Dopo la seconda guerra mondiale, dalle esperienze della mobilitazione militare e spirituale delle une contro le altre hanno tratto la conseguenza di sviluppare nuove forme di cooperazione sopranazionale. La storia dei successi dell´Unione europea ha consolidato negli europei la convinzione che l´addomesticamento dell´esercizio della forza da parte dello stato esige anche sul piano globale la delimitazione reciproca dei campi d´azione sovrani.
Ciascuna delle grandi nazioni europee ha attraversato una fase di pieno dispiegamento della potenza imperiale e, ciò che nel nostro contesto è più importante, ha dovuto elaborare l´esperienza della perdita di un impero. Questa esperienza di declino si collega in molti casi con la perdita dei possedimenti coloniali. Con la crescente distanza dall´epoca dei domini imperiali e della storia coloniale le potenze europee hanno anche avuto l´opportunità di situarsi ad una distanza riflessiva da se stesse. Hanno così potuto apprendere a percepirsi, dalla prospettiva degli sconfitti, nel ruolo dubbio dei vincitori cui viene chiesta ragione della violenza di una modernizzazione paternalistica e sradicante. Questo potrebbe aver favorito la rinuncia all´eurocentrismo, dando le ali alla speranza kantiana in una politica interna mondiale.

(Traduzione di Carlo Sandrelli)

Jürgen Habermas

Jürgen Habermas (1929) è un filosofo, storico e sociologo tedesco nella tradizione della “Teoria critica” della Scuola di Francoforte. È stato docente alle università di Heidelberg e Francoforte. Nei suoi …