Umberto Galimberti: Noi e l'Islam. Che cosa ci divide?

12 Giugno 2003
La guerra
Umberto Galimberti: "Dio bisognerebbe lasciarlo fuori dalle guerre. Mi pare corretta la posizione del Papa quando parla di "silenzio di Dio". Un silenzio di chi se ne sta fuori. Ogni guerra è inevitabilmente un fallimento della cultura e della civiltà. A chi dice che l'umanità ha sempre fatto guerre, rispondo che si diventa civili man mano che se ne fanno di meno. Le motivazioni delle guerre in realtà sono sempre molto laiche, i conflitti vengono scatenati per con- creti interessi, mai per questioni religiose, eppure ogni volta che c'è un deficit di giustificazione si finisce per fare le cose in nome di Dio. Quando George W. Bush invoca Dio, vuol dire che dimentica radicalmente la cultura occidentale, che, a partire dalle riflessioni di Hobbes, fin oltre la Rivoluzione francese, ha fondato la legittimità dello Stato sul contratto, sul consenso degli individui e non sulla volontà divina: l'Occidente è fortemente caratterizzato dalla sua laicità e Bush non fa che riportarlo a una dimensione teocratica che appartiene al suo passato remoto".

Ali Abu Shwaima: "Il Corano non usa mai la parola guerra (harb): nell'Islam questo termine ha una valenza molto negativa, è una parola che non si deve pronunciare. Quando Bush cita il nome di Dio per fare la guerra e distruggere i popoli non fa altro che andare contro Dio. E Dio, come dice il profeta, magari tralascia per un po', ma non dimentica: Dio, come dice il vostro Papa, è silente, ma non assente. Punirà chi aggredisce le sue stesse creature. Dio è il giusto assoluto".

Il terrorismo
Ali Abu Shwaima: "Io chiamo "guerra" quella che viene dichiarata da uno Stato contro un popolo, per invaderlo, per aggredirlo. Mentre quando una persona o un gruppo di persone difende il proprio Stato, la propria patria, beh, questo, secondo me, non può essere considerato "terrorismo": in fondo è la stessa cosa che fecero i partigiani in Italia... Così l'isteshehad (quello che noi chiamiamo genericamente "kamikaze", n.d.r.) è una persona che difende il suo terreno, ma che non ha armi uguali a quelle del suo aggressore, e che magari ha visto la sua casa distrutta, o addirittura massacrati i suoi familiari...".

Umberto Galimberti: "Il terrorismo viene usato da parte di chi non ha una potenza militare. Se venisse fornito ai palestinesi un esercito pari a quello degli israeliani, allora parleremmo di guerra e non di terrorismo. Il terrorismo è un'arma dei deboli. I palestinesi sono un Paese aggredito, e non disponendo di altro, usano i loro uomini. D'altra parte gli israeliani, quando vanno lì a buttar giù le case, distruggono la vita, e distruggono anche la simbolica, gli affetti... Non parlo solo dell'aggressione dell'Occidente in termini militari, ma anche del modo in cui l'Occidente in generale guarda ai Paesi arabi. Li guarda con l'occhio di chi intende accaparrarsi le loro ricchezze".

La globalizzazione
Ali Abu Shwaima: "La globalizzazione potrebbe anche essere positiva se con questa parola non si intendesse un ordine mondiale in cui una piccola parte domina tutto il pianeta. Così intesa, la globalizzazione diventa negativa e può creare solo disordine. E purtroppo è quello che viviamo oggi: la società americana vuole imporre la sua cultura e devo dire che l'America è in realtà la meno adatta a divulgare cultura. L'America tecnologicamente e materialmente è sicuramente avanzata, ma a livello culturale, a livello cioè di conoscenza della storia e dello sviluppo del pensiero, non ha davvero nulla da insegnare a nessuno. L'abbiamo visto con la guerra in Iraq: i soldati americani erano interessati a proteggere il ministero del petrolio e hanno tranquillamente lasciato il museo e le biblioteche allo sciacallaggio. Questo dà la dimostrazione del valore di queste persone. Sai che cosa pensano gli americani? "Tu devi allinearti a me, tu devi ragionare come me, altrimenti ti distruggo". Questo non può portare l'uomo alla felicità. Rifiuto questa globalizzazione e rifiuto anche la globalizzazione a livello economico: noi sappiamo che ci sono Paesi che sfruttano le risorse di altri Paesi più poveri. Aprire un mercato libero non vorrebbe dire nient'altro che permettere ai pesci grandi di mangiare quelli piccoli. E già ne abbiamo testimonianza: l'80 per cento della ricchezza americana è in mano al 2 per cento della popolazione e quindi il 20 per cento rimanente è nelle mani del 98 per cento degli americani. Figuriamoci negli altri Paesi, dove magari un dittatore si tiene tutto e agli altri non arriva niente. Detto questo, l'Islam accetta la globalizzazione se la si intende come scambio culturale: io ti do quello che ho di buono, tu mi dai quello che hai di buono. Può esserci, cioè, un dialogo. Il Corano non riconosce i confini e nel suo ordinamento economico non c'è la dogana. Accetta quindi il mercato aperto, purché ci sia giustizia. Noi siamo poi contrari al sistema bancario, a un sistema cioè basato sull'interesse, che non potrebbe creare se non ingenti patrimoni in mano di pochi. Questo sistema non può durare se non provocando rivoluzioni e guerre".

Umberto Galimberti: "La parola globalizzazione di per sé è una parola neutra. Il problema è che, proprio perché è neutra, chi ha maggior potenza la usa a suo modo. Se è vero che l'Occidente consuma l'87 per cento delle risorse del mondo, è evidente che se vuole mantenere il proprio tenore di vita deve andare ad accaparrarsi le ricchezze ovunque esse siano. Il modello capitalistico occidentale non è esportabile perché se altri due miliardi di uomini dovessero vivere ai nostri livelli sarebbe come se la Terra fosse abitata da 100 miliardi di uomini e le risorse non basterebbero più. Mi domando però se anche il Mondo islamico non abbia gravi colpe, in questi squilibri. I Paesi arabi, tutto sommato, sono paesi ricchi: hanno il petrolio. Perché non si è riusciti a ridistribuire quella ricchezza, una ricchezza di rendita esorbitante? Perché non si è stati capaci di renderla produttiva? Il petrolio è un'arma potente: potreste cominciare a dire che non lo date più all'Occidente, oppure con i soldi che gli Stati arabi ne ricavano potreste creare delle strutture più opportune. E non dico democratiche: democrazia di per sé è una parola vuota, un sottoprodotto dell'economia, quando la gente sta bene è democratica, quando sta male si scanna. Noi siamo democratici perché siamo ricchi, se fossimo poveri non lo saremmo. Il problema della democrazia, dunque, mi interessa poco, ma una più equa distribuzione della ricchezza, questa sì, potreste attuarla...".

Ali Abu Shwaima: "Nel sistema islamico esiste la democrazia, si chiama elasciura: vuol dire che il popolo sceglie i suoi capi di governo, potendoli cambiare se non dovessero andare bene. La democrazia, poi, se vogliamo tornare alla storia, gli occidentali l'hanno imparata proprio quando sono entrati in contatto con il mondo islamico, dopo le crociate. Fino a quel momento l'Occidente era basato su un sistema feudale, in cui solo una piccola parte della popolazione possedeva la totalità delle ricchezze. La democrazia non è dunque estranea all'Islam: il problema è che l'Occidente ha voluto creare divisioni nel mondo arabo. Dopo la caduta dell'Impero Ottomano, hanno fatto di tutto perché questi Paesi fossero divisi e frammentati e non riuscissero a ricreare una situazione equilibrata, imponendo così dei dittatori. Ogni volta che c'è stato un tentativo del popolo per raggiungere la democrazia, le grandi potenze, corrompendo gli eserciti, hanno organizzato colpi di Stato per instaurare dittature. L'Occidente ha così messo nei ruoli di comando le proprie pedine, capi che prendono ordini da loro con la promessa di farli vivere da occidentali, in mezzo all'agio e alla ricchezza e ben sicuri di essere protetti ogni qual volta il popolo insorge. In certi Paesi del Golfo si considera l'emiro, il re, come il possidente della ricchezza: quando dà qualcosa al popolo è come se desse del suo patrimonio privato. E questo sistema non è certo sostenuto dalla gente del posto, ma da ben più potenti forze esterne. È successo con Saddam: ora l'America dice che ha liberato il popolo iracheno da un dittatore, ma dal 1991 sono stati 17 i tentativi di colpo di Stato sventati contro di lui, anche con l'appoggio della Cia: all'America è stato utile mantenere lo status quo per diversi anni, senza cambiamenti. È colpa dell'Occidente se i popoli islamici non sono liberi. Guardiamo all'Algeria: quando il popolo algerino ha voluto portare avanti un sistema democratico, scegliendo i propri rappresentanti, subito c'è stato un colpo di Stato appoggiato dall'Occidente: il partito che ha preso il 70 per cento dei voti, per i mass media occidentali era diventato un partito fondamentalista. Ma allora chi deve scegliere? L'algerino o chi vuole sfruttare l'algerino?".

Le donne
Umberto Galimberti: "Non propongo il modello della donna occidentale, che è abbastanza disastroso. Ma sono convinto che le grandi trasformazioni storiche dipendano dalle condizioni delle donne. Quando la donna era pia, la società era diversa rispetto a oggi, che è il tempo della donna discinta. Non sto qui a discutere del burqa pensando al mondo afghano, ma, al di là di questi estremismi, è pur vero che nei Paesi islamici si ha l'impressione di una dominanza totale della libertà del maschio rispetto a quella femminile.

Ali Abu Shwaima: "L'Islam ha dato i pieni diritti alla donna da 14 secoli, senz'altro più di quello che è riuscito a fare il mondo occidentale, che ha reso la donna un oggetto, pura merce di piacere. La donna, nell'Islam, vota da molti più anni di quanto non faccia qui da voi e non ha ottenuto questi diritti perché è diventata femminista, ma perché così ha detto Dio attraverso il Corano. Mentre le altre società per anni hanno dibattuto se la donna avesse l'anima, l'Islam ha sempre detto che uomini e donne sono uguali davanti a Dio. Il profeta dice che se ci si vuole davvero avvicinare alla vera religione, si deve prendere almeno metà della scienza religiosa da Aisha, sua moglie. Le ultime parole che ha detto il profeta sono state: "Pregate e trattate bene le donne". Voi vedete di mal occhio la poligamia, come se fosse un fatto maschilista, ma non è senza senso che gli uomini possano sposare più donne e credo invece che la monogamia possa essere una condizione sfavorevole. Qui in Italia ci sono 22 milioni di donne che votano e 20 milioni di maschi che votano. Dunque, nell'età della maturità ci sono 2 milioni di donne più degli uomini. E se c'è una legge che dice che un uomo non può sposare più di una donna, ciò vuol dire che 2 milioni di donne non hanno il diritto alla maternità, visto che non si dovrebbero avere rapporti sessuali al di fuori del matrimonio. L'Islam non obbliga l'uomo ad avere più mogli, ma almeno lascia aperta la porta. Inoltre la donna, per questioni fisiologiche, non è disponibile all'atto sessuale almeno cinque giorni ogni mese. E si sa che alcuni uomini hanno bisogno dell'atto sessuale quotidiano: è la loro natura e se glielo si impedisce, loro vanno a cercarlo altrove... Nella società occidentale, tutti sanno che molti uomini hanno l'amante, ma questa amante non ha alcun diritto: per lei non c'è rispetto, cosa che invece non manca nella società islamica, dove tutte le donne sposate a un uomo, prima di tutto a livello psicologico, vengono considerate mogli a tutti gli effetti. Non si devono quindi sentire in colpa, né sono ladre del marito altrui, né sono discriminate a livello di eredità, di mantenimento e di riconoscimento dei figli. Dunque, o si creano confusioni sociali, o gli uomini possono sposare più donne... Per quanto riguarda il lavoro, poi, l'Islam non obbliga la donna a lavorare, perché vorrebbe dire obbligarla a fare due lavori. La donna, per la sua pazienza e per la sua sensibilità, è la più adatta per far crescere i figli e sarebbe ingiusto se fosse obbligata ad andare a lavorare per mantenersi e mantenere la famiglia. Ma l'Islam non impedisce alla donna di lavorare, anzi, ci sono lavori che possono essere fatti solo dalle donne (la ginecologa, l'infermiera per i reparti femminili, il medico in genere). E se una donna lavora, può tenere lo stipendio per sé e spendere i soldi che ha guadagnato a suo piacimento, mentre l'uomo è obbligato a mantenere tutta la famiglia...".

I tempi moderni
Ali Abu Shwaima: "L'Islam non fa pressioni sulla natura dell'uomo. Quindi anche il sesso, per noi, non è un tabù. Certe persone credono che la donna si metta in capo il hijab anche in casa, davanti al marito, cosa assolutamente falsa: la donna fa come vuole. Nel rapporto sessuale, vale ogni cosa che possa procurare piacere, balli e giochi di ogni genere. Il profeta dice: "I coniugi non devono avvicinarsi l'uno con l'altro come fanno i somari, arrivando subito all'atto, ma devono far precedere i preliminari". L'Islam è tollerante, è contrario solo a ciò che causa danno ad altri o è basato sul capriccio".

Umberto Galimberti: "La forza di attrazione che ha l'Occidente è enorme, per via dei mezzi di diffusione e per gli stili di vita che propone. E con questo non dico che siano stili di vita buoni, ma che sono egemoni. Ci sarà quindi inevitabilmente un processo di attrazione e io penso che ci sarà anche un processo di progressiva laicizzazione del mondo islamico. Non vorrei che i musulmani vedessero in questa laicizzazione un pericolo. Quando invece la fede detta le regole della condotta civile allora ci si trova in una sorta di costrizione. Uno dei messaggi di Gesù Cristo era che la fede non stava nella legge, ma stava nello spirito. Poi magari finisce anche che non sta più neanche nello spirito. Ma mi sembra un elemento di debolezza che la religione debba diventare anche la regola della condotta quotidiana, come se non ci si fidasse dello spirito dell'uomo e ci fosse bisogno di comportamenti controllati. Penso che all'Islam, un processo di laicizzazione non possa che far bene. È vero che i processi di laicizzazione, una volta che cominciano, non si sa dove finiscono, ma sono anche convinto che la società islamica sia più forte di quella occidentale, almeno dal punto di vista della qualità antropologica. Noi dal punto di vista antropologico siamo forse la società più debole, e questo dovrebbe farci riflettere: non siamo capaci di morire per una causa comune. Facciamo le guerre ipotizzando che l'avversario voglia salvare la vita e siamo molto impreparati a un avversario disposto a sacrificarla per scelta. Loro mettono al mondo molti figli, noi pochi. Ci mancano le basi antropologiche per la conservazione di un nucleo. L'unico vincolo che abbiamo, il fondamento di tutti i nostri valori, è quello economico, che è fragile perché è estrinseco. Non ci piacerà la società islamica per il suo eccesso di regole, però quello che io vedo di positivo è la presenza in essa di forti valori simbolici. Se non c'è ricchezza, la felicità è data dai simboli, dall'appartenenza al gruppo. Nel momento in cui tu rompi i simboli di un popolo, hai quello che Duncan chiama "l'anomia sociale", che crea pensieri del tipo "se posso fare il furbo nei confronti della società, lo faccio". Quella islamica è una società ancora fortemente simbolica e garantisce una sorta di serenità, di modo da condurre la vita secondo le regole. Se noi crollassimo economicamente, dovremmo per forza recuperare delle simboliche. Lo stesso fatto che l'Occidente sia costretto a ricorrere alla violenza indica il collasso della politica e della cultura ed è sintomo di debolezza: se la società della potenza ricorre alla guerra vuol dire che tocca un po' della sua impotenza. Marx diceva che uno dei disastri che ha fatto la borghesia è quello di aver desimbolizzato tutto nella società: la desimbolizzazione provoca un disorientamento. Per le culture povere sarebbe molto pericoloso operare simili desimbolizzazioni: se arrivassero alla nostra anomia, ciò li porterebbe alla rovina".

Il dialogo
Umberto Galimberti: "Non credo al dialogo tra le culture diverse. Credo nel rispetto. Per comprendere il mio interlocutore dovrei entrare nella sua simbolica, che non è la mia. E non so se ho gli strumenti per capire la simbolica di un musulmano. Si illudono forse di farlo molti italiani che si stanno convertendo all'Islam: ma penso che in genere siano errori psicopatologici gravissimi, come del resto le conversioni al buddismo. Convertirsi vuol dire tagliare le proprie radici. E quando un albero è senza radici si rinsecchisce. La stessa conversione di San Paolo, in termini psichiatrici sarebbe un caso di schizofrenia. Userei, al posto di dialogo, una parola molto più modesta, il rispetto: la capacità cioè di ipotizzare che l'altro abbia un tasso di verità superiore al mio, a cui io non riesco ad accedere. Ma il dialogo inteso come comunicazione e comprensione, no: c'è un fattore inevitabile in ciascuno di noi, che si chiama storicità. E queste radici condizionano".

Ali Abu Shwaima: "Per me, al contrario, il dialogo deve esistere. Nel Corano ci sono più di 11 mila parole che derivano dalla radice hiwar, dialogo appunto. È ciò che differenzia l'uomo dall'animale: la capacità di parlare, scambiarsi idee. Penso che ogni cultura abbia lati positivi: è bene che la società occidentale sia avanzata tecnologicamente ed è bene che quella araba abbia una maggior elevatura spirituale. Se poi si crea un contatto tra le due, l'arricchimento è reciproco. Il Corano dice che quando si dialoga, ci si deve disporre ad ammettere le ragioni dell'altro, e di scoprire che magari aveva torto. L'Islam incoraggia il dialogo, purché non sia un puro bizantinismo, una polemica fine a se stessa. Ma il musulmano mette sul tavolo il proprio credo e questa è una delle sue forze: l'importante è riuscire ad arrivare alla verità. E se non dialogo con te, non riesco a conoscerti e non posso davvero rispettarti, nel profondo".

Umberto Galimberti

Umberto Galimberti, nato a Monza nel 1942, è stato dal 1976 professore incaricato di Antropologia Culturale e dal 1983 professore associato di Filosofia della Storia. Dal 1999 è professore ordinario …