Umberto Galimberti: L’ideale di Rita Pavone e di Giovanni Gentile

26 Agosto 2003
"Come te non c’è nessuno. Tu sei l’unico al mondo". Era l’attacco di una canzone che Rita Pavone cantava negli anni Sessanta. Non so se Rita Pavone, allora ragazzina, avesse letto Frammento di una gnoseologia dell’amore che il filosofo Giovanni Gentile aveva scritto nel 1918. Ma quella canzone e quel breve saggio di Gentile dicono la stessa cosa, che è poi una grande verità: non ci si può innamorare se non si idealizza la persona amata, se la fantasia non interviene a farne qualcosa di unico, di inequiparabile. Certo più si scalano le montagne più pericolosi diventano i precipizi. Ma senza la prossimità dei precipizi alle altezze che si è voluto raggiungere non c’è brivido. Nel nostro caso brivido d’amore.
Quando Gentile nel 1918 scriveva il suo Frammento di una gnoseologia dell’amore la psicoanalisi incominciava la costruzione del suo edificio all’insegna dell’"esame di realtà". Chiamava "nevrotici" quelli che costruiscono castelli di sabbia in aria e "psicotici" quelli che li abitano, perché gli uni e gli altri si allontanano da quel "sano realismo" che è proprio della realtà specifica, chiara e affidabile, per abitare gli uni un mondo fantastico, gli altri un mondo delirante. Agli innamorati che idealizzano la persona amata, la psicoanalisi ricorda che l’idealizzazione è una regressione infantile, perché trasferisce sulla persona amata quel senso di unicità che da bambini attribuivamo ai nostri genitori, quando li sopravvalutavamo perché da loro dipendeva la nostra vita e ancora non avevamo visto le loro ombre.
Se l’idealizzazione dei genitori è utile ai bambini perché crea in loro quella fiducia di base necessaria per crescere con un minimo di rispetto di sé, è terribilmente pericolosa quando ci si innamora, perché gli ideali si appannano facilmente, gli incantesimi si spezzano, gli effetti magici si dissolvono, i trucchi prima o poi vengono a galla. Dopo la prima notte di passione trascorsa insieme Romeo e Giulietta temono la luce, perché l’aspra luce del mattino dissipa, il giorno dopo, l’incanto del chiaro di luna. Fin qui le parole della psicoanalisi, ma il suo discorso all’insegna del "sano realismo" prosegue avvertendoci che l’idealizzazione ci impoverisce, perché tutto ciò che ha valore è collocato nell’altro. E se l’altro non ricambia l’idealizzazione di cui è stato investito, se quanto abbiamo trasferito in lui non ritorna, allora o siamo capaci di rompere l’incantesimo e vedere l’altro in una prospettiva più sobria e realistica, o precipitiamo nel rifiuto di noi, svuotati come siamo di ogni nostro valore che nell’idealizzazione abbiamo attribuito all’altro. E allora se non è suicidio è inconsolabile depressione. Idealizzando l’altro, ci siamo staccati dalla realtà. E siccome la nostra stabilità dipende dalla valutazione accurata del reale, innamorarsi idealizzando, come suggerisce la canzone di Rita Pavone e il saggio di Giovanni Gentile, per la psicoanalisi è molto pericoloso.
Pericoloso, ma inevitabile. Perché il desiderio non si attiva senza idealizzazione, senza immaginare nell’altro quelle qualità che lo rendono unico, speciale, straordinario. Freud credeva che la fantasia fosse opposta alla realtà e la oscurasse, e che l’immaginazione, che arricchisce la realtà e non di raro la inventa, fosse nemica della percezione che invece la riproduce fedelmente. Ma dopo Freud la fenomenologia, e in particolare Merleau-Ponty, ci hanno fatto constatare che l’immaginazione e la fantasia, di cui l’idealizzazione amorosa è una figura, influenzano la nostra percezione della realtà, per cui ciascuno la vede a modo suo affacciandosi dalla finestra del proprio castello di sabbia preferito. E questo perché la percezione della realtà non è qualcosa di passivo, ma una costruzione attiva, dove l’immaginazione, la fantasia, il desiderio intervengono a trasfigurare i dati di realtà, affinché questi possano assumere un senso per noi. Da questo punto di vista l’oggettività è un ideale impossibile, è il desiderio di pervenire a una sicurezza che non sarà mai raggiunta. Forse anche nelle vicende d’amore vale il principio formulato dal fisico Werner Heisenberg secondo cui le condizioni in cui si attua un’osservazione modificano l’osservato. Infatti quel che si scopre di un’altra persona dipende in gran parte da chi noi siamo e da come l’avviciniamo. La stessa cosa possiamo dirla per quella conoscenza di sé che l’oracolo di Delfi assegnava a ciascuno come compito della sua vita. Compito infinito, perché conoscere una versione di sé può essere un modo per difendersi dalla conoscenza di altre versioni di sé e dalle sorprese che ne potrebbero derivare. Diremo allora che la convinzione di conoscere realmente l’altro in modo oggettivo, affidabile e prevedibile è una delle tante illusioni, anzi, forse l’ultima illusione promossa da quella passione che non vuole mai incontrare la delusione. Dipendiamo dagli altri e perciò siamo portati a costruirli nei termini più stabili e conoscibili possibili, perché solo mantenendo la passione, il desiderio, l’entusiasmo, l’idealizzazione al minimo, minimizziamo la delusione e la rabbia, fino al punto di rimuovere selettivamente le qualità davvero reali e desiderabili dell’altro che un tempo avevano infiammato la nostra passione. Questa è l’oggettività. Una difesa dalla delusione. Il nostro desiderio di sicurezza e la nostra sete di passione ci spingono in direzioni opposte. Qualsiasi eccitazione idealizzante mette l’amante in pericolo. L’idealizzazione può non essere ricambiata, l’amore può non essere corrisposto. E allora si troncano gli amori sul nascere, non perché l’idealizzazione vien meno a contatto con la realtà e la familiarità, ma per non dipendere da una idealizzazione appassionata che può mettere a rischio la sicurezza e la prevedibilità di cui in una relazione sentiamo il bisogno. Le caratteristiche adorate dell’altra persona possono anche non essere affatto illusorie, ma siccome perdere chi è "unico al mondo" è molto più doloroso che perdere uno qualsiasi, dall’idealizzazione di solito ci si difende o, come abbiamo visto, troncando la relazione dopo il primo incontro, o aggrappandosi alle imperfezioni e ai difetti del partner per tenere a bada la fascinazione. Meglio spegnere subito una stella o offuscare la sua luce, piuttosto che correre il rischio che quella stella non splenda per noi. Brividi sì, ma brividi sicuri. Quando cerchiamo di assicurarci una certa stabilità degradando le idealizzazioni, diciamo di noi che siamo più saggi e ne sappiamo di più. Ma non è assolutamente certo che il terreno stabile che cerchiamo con il nostro "sano realismo" sia più reale delle idealizzazioni che incendiano le nostre passioni. In realtà quel terreno è solo selezionato per scopi diversi, di solito di natura difensiva, per evitare la delusione. Ma evitando il rischio della delusione, ci ricorda Giovanni Gentile nel suo Frammento di una gnoseologia dell’amore, si evita anche di costruire e trasformare la realtà. Infatti, scrive il filosofo: "Amare è volere. Se amiamo ciò che ha pregio e risponde all’ideale è perché quell’ideale non c’è e con l’amore lo vogliamo realizzare". Il messaggio è chiaro. Amore non è una condizione passiva, ma una costruzione attiva che trasforma una realtà per sé insignificante in una fascinazione, grazie a quella idealizzazione che l’amore vuole realizzare. Perché amore è innanzitutto creazione e non passiva soddisfazione. Capaci d’amore non sono mai coloro che stanno in attesa dell’incontro della loro vita, ma coloro che lo creano trasformando il reale secondo il proprio ideale. Infatti, scrive ancora Giovanni Gentile: "La persona amata è quella ricreata dal nostro amore. Essa è un nuovo essere per noi sin da quando prendiamo ad amarla; ma si fa realmente un essere sempre nuovo, si trasforma continuamente in conseguenza del nostro amore, che agisce su di essa, conformandola a grado a grado sempre più energicamente al nostro ideale. Insomma, l’oggetto dell’amore, qualunque esso sia, non preesiste all’amore, ma è da questo creato. Vano quindi cercarlo con l’intelligenza astratta, che presume di conoscere le cose come sono in se stesse. Su questa via non può trovarsi se non la mancanza di ciò che si ama ed è degno perciò d’essere amato. Si trova il difetto, il male, il brutto: ciò che non si amerà mai, perché, per definizione, è ciò che invece si odia". Attenti dunque al "sano realismo". Come dice Wallace Stevens esso è l’ultima illusione che costruiamo per difenderci anticipatamente dalla disillusione. Ma in queste regioni, abitate dalla prudenza scambiata per "esame di realtà", non è dato incontrare le case d’Amore.

Umberto Galimberti

Umberto Galimberti, nato a Monza nel 1942, è stato dal 1976 professore incaricato di Antropologia Culturale e dal 1983 professore associato di Filosofia della Storia. Dal 1999 è professore ordinario …