Paolo Rumiz: Le dolci Alpi del Sud

27 Agosto 2003
BARCELONNETTE - Macché Galibier, macché Col de l’Izoard. Il ciclista lo sa. L’ultima Roncisvalle alpina si chiama Col de la Cayolle, l’estremo scollinamento del Tour, la porta del Mediterraneo, il principio del Midi. Eccolo il finale del nostro viaggio. Aveva ragione Mario Rigoni-Stern, il grande vecchio della montagna. Ci aveva esortato a passare per queste Alpi Marittime che oggi emergono come lui le ha descritte. Selvagge, desertiche, quasi algerine, nel cielo violetto della grande sete. Sessanta chilometri da lupi, sospesi tra Delfinato e Provenza, senza l’ombra di un segnale nel telefonino. Rendez-vous nel pomeriggio a Barcelonnette con Roberto Babich, un triestino innamorato della Francia. Sadicamente mi porta in dote una bici da prima guerra mondiale, pesantissima, il freno-pedale e una sola volantina. Un purgatorio per la salita. Ma che importa, non c’è fretta, prepariamo le sacche sul bordo del fiume. Ci aspetta la Route des Grandes Alpes. Figurarsi se le cose francesi non sono grandi. Qui la montagna non ha complessi, il viaggiatore è bombardato di superlativi. Un esempio? C’è un passo, qui sopra, che si chiama Bonnette. Siccome era un po' più basso dello Stelvio, per avere la strada più alta delle Alpi i francesi gli aggiunsero un chilometro a fondo cieco. Perfettamente inutile alle automobili, ma indispensabile alla grandeur. A fare del Col de la Bonnette «la route plus haute des Alpes». Noi preferiamo il Col de la Cayolle, la sua gola spettacolosa, infuocata, segnata da rocce contorte, rosse, che svelano la muscolatura delle ultime Alpi. Dobbiamo bagnare il berretto a ogni fontana per non far bollire il cervello. Il vento tra i pini evoca rumore di cascate, e l’illusione aumenta la sete. Penso: ecco perché il Mont Ventoux, il monte del vento, è maledetto per i ciclisti. Non ti cuoce soltanto, ti chiama anche perfidamente a un fiume che non c’è. Posti da lupi, dunque. «Oui, les loups» ci conferma un tipo a una fontana. «Loups italiens», aggiunge guardandoci. Lupi italiani, che fanno strage di pecore. Ma noi lo sappiamo che è una balla. I lupi li hanno reintrodotti i francesi, a Digne, ma per calmare i contadini hanno inventato la favoletta. Mi guardo bene dal negare. Ma aggiungo: «Oui, monsieur, loups sans papier». Lupi clandestini, senza documenti. E ripenso a Blanchette, la capra narrata da Alphonse Daudet. Divorata un secolo fa da un francesissimo lupo, dalle parti di Avignone. Ultima fontana, ultimo bar con pergolato per riempire le borracce, ultimo campanile romanico. Oltre la capanna "Chez Hélène" la valle si apre, il sole declina, comincia l’Alpe più solitaria che abbia mai visto. Cielo striato, sento i jet di linea nel silenzio totale. Roberto va regolare, le pietre miliari sono fatte apposta per i ciclisti, hanno anche la pendenza media. Ah dolce Francia, che relax. I motorizzati ci lasciano passare a ogni strettoia, a ogni ponticello, per il solo piacere di vederci andar su. Nessun compatimento in quella gentilezza. Anzi, un po' di invidia, viste le nostre rispettabili pancette. Verso i 2200 la luce del passo tracima da Sud, ed è già una luce provenzale, che evoca tovaglie bianche, bicchieri imperlati con ghiaccio e Pernod. Una marmotta perplessa dal pelo grigio ci guarda passare. Muschio, piccoli ruscelli, una solitudine patagonica, da pellegrini medievali. Ed è la vetta, 2326. Deserta, col cartello «Nizza 130 km» e il cippo della «Route departementale 2202». Traffico zero, posso distendermi in mezzo alla strada, come un sultano. Annusare gli odori del Midi che arrivano dall’altro versante. «A' la mer!», al mare, grido a Roberto prima di infilare la discesa. Lui mi rimanda la parodia di un urlo di guerra: «A' la mer comme à la mer!», a dire che abbiamo ancora territori da conquistare, gli ultimi orizzonti di gloria verso il nostro Arc de Triomphe. Ed è il tuffo nella sera, la bici che va come un aliante, infila un tornante dopo l’altro mentre l’aria si rifà tiepida e la montagna ricorda le Apuane, la Garfagnana, la Corsica. In fondo, oltre le sorgenti del Var che da lì scende a Nizza, i primi lumini accesi. Ombre lunghissime, una conca verde scuro, denso, punteggiata di eremi e campanili solitari. Le prime querce, il primo rosmarino, collinette desertiche di rocce friabili, grigie. Poi passiamo Entraunes, tutto il villaggio è sulla strada per l’apertivo, si volta in silenzio per vederci passare. A Villeneuve la scena si ripete, centinaia di occhi si girano in simultanea verso «les italiens». Esultiamo: finisce l’Alpe dei gerani al balcone, comincia quella dei panni stesi alle finestre. La nostra. Rumore di stoviglie sulla strada. Profumo di pane. Il Sud. In fondo alla discesa ecco Guillaumes, con le rocce illuminate dalle fotoelettriche che strapiombano sullo stradone, i platani e lo struscio. E' la vecchia Francia che amiamo, con la taverna "La Diligence", l’hotel "Le Chaudron", la scuola, il municipio, la farmacia e il forno del pane tutti lì in cento metri. Dormiremo qui. L’albergatore sorride, ci dice «enchanté», prende le bici e servendoci il Pernod ci esorta a non derogare alla filosofia della lentezza. Sussurra: «Prenez votre temps», prendetevi il vostro tempo. E' l’Alpe bonbon, o forse frufru. Profumo di donna, tabacco e lavanda. I bar pieni, come nel quadro di Renoir "Les Canotiers". Sulla Statale non possano automobili, e la carreggiata è invasa di ragazze, vecchi e bambini. L’aria della sera è percorsa di voci e segnali. Attorno ai lampioni falene enormi come colibrì, un grosso cervo volante che fatica a decollare, una farfalla testa di morto immobile, pipistrelli impazziti. Mancano solo il curato e il cinema all’aperto. Può essere Grecia, Spagna, Montenegro. Ovunque nel Mediterraneo. E allora di colpo, davanti a una Kronenbourg '64, ci assale la nostalgia lancinante di un’Italia perduta.

Paolo Rumiz

Paolo Rumiz, triestino, è scrittore e viaggiatore. Con Feltrinelli ha pubblicato La secessione leggera (2001), Tre uomini in bicicletta (con Francesco Altan; 2002), È Oriente (2003), La leggenda dei monti …