Paolo Rumiz: L'ospizio dei fantasmi

27 Agosto 2003
GRAN SAN BERNARDO - Quando la pendola del mezzanino batte le 22.30 accanto alla tomba del generale Louis Charles Desaix, eroe della battaglia di Marengo, l’Hospice sul passo del San Bernardo diventa una cosa viva che respira. Nelle camerate inizia il letargo dei viandanti e della Confraternita che li ospita. Cresce regolare, monotono come una litania, mentre una luce liquida color avorio si spegne con lentezza infinita dalla parte del Monte Bianco. Niente a che fare con l’orda dei rifugi, pane salame e «me piasi el vin». Qui regna un sonno felpato, corale. Quieto come quello di un gregge. Se è la tua prima notte quassù, è facile che ti catturi la leggenda di questo severo edificio in pietra che da quasi mille anni funziona come stazione di soccorso. Rivedi il passaggio di Napoleone, senti le urla, i comandi, i cannoni tirati a braccia. Tornano le notti d’inverno, le laudi nella cripta, gli emigranti uccisi dalla bufera, accatastati nella cappella mortuaria e sepolti in piedi per assenza di spazio. Appare una processione di fantasmi che recita mille storie, ripete la voce di una strada che somiglia alla voce del vento. Con queste presenze accanto, è facile che il sonno se ne vada. Accendo la lampada frontale nella cuccetta, prendo appunti tra le coperte. Alle due, infilo le ciabatte e vado in corridoio alla ricerca della toilette. Trovo una porta di legno antico, la apro su un ambiente piccolo, rettangolare. Niente interruttore della luce, solo strane corde che pendono dal soffitto. Mi trovo al piano terzo, e la pila illumina una scaletta a pioli che sale fino al quinto. In alto, dove le corde finiscono, quattro campane. Sono in un campanile, dunque. Ma che ci fa in mezzo ai dormitori? E a che serve, così, chiuso «dentro» le mura dell’Ospizio? Dietro la porta, un’altra porta, più piccola. La apro. Ecco una saletta minimale, dove pulsano lumini, ronzano apparecchiature. Leggo: «Temperature», «Humidité». E' la stazione meteorologica, collegata con qualche gnomo a Zurigo. In un quadernone, i turni di guardia per i controlli manuali. Sul muro, il grafico delle nevicate dal 1851, con picchi annuali di 25 metri. Misuro la meticolosa efficienza degli svizzeri. Misuro, anche, la ferocia di questi inverni. Il San Bernardo, dicono, non lo puoi capire d’estate. La pendola batte le tre. Torno in corridoio, ma succede una cosa strana. Il corridoio è come se avesse cambiato forma. Traguardo il muro maestro e scopro che è curvo. Penso: muro storto, casa storta. Devo uscire per capire. Scendo, traverso il piano due verso le scale e invece trovo la porticina che conduce al ballatoio dell’organista. Sotto, dalla chiesa buia, arruva una voce: «Il corpo di Cristo vi protegga, amen». Torno indietro, scendo al pianerottolo dove c’è la tomba di Desaix, ma ha tre porte. Una è la biblioteca, sprangata. La seconda - anch’essa chiusa - è l’accesso alla passerella invernale, che consente di accedere al palazzo oltre la strada quando la neve è troppo alta. Solo la terza, aperta, porta al pianoterra. Esco sotto le stelle e vedo che la costruzione non è affatto curva. E' un prisma perfetto. E' un rebus tutto da capire. Passo davanti al museo e al canile dei San Bernardo, poi all’Auberge sulla strada di Martigny. Fa freddo, incontro due indomite vegliarde inglesi che escono dal sacco a pelo dentro un furgone Bedford. Continuo fino a un’altra casa, simile all’Hospice ma più piccola. Sopra c’è scritto «Morgue». Contiene i morti, prima della sepoltura e del riconoscimento. «Ce ne sono 150 - mi ha detto ieri sera il confratello Yvon Kull - che attendono la resurrezione». Alcuni sono lì da secoli. Penso che mi sono tirato dietro il portone, forse non potrò rientrare all’Ospizio. Invece la porta è aperta, non c’è chiavistello. Il San Bernardo non chiude mai, da mille anni. Apre a eserciti e disertori, viandanti e ciclisti, sciatori e pellegrini. A chiunque, purché non in auto. Davanti all’ufficio dell’elemosiniere trovo il priore, Jean Marie Lovey. Un tipo magro, capelli corti argentati. S’è alzato per le preghiere dell’alba. Sorride alle mie domande sul corridoio curvo e il campanile nascosto. Spiega: è l’Ospizio che è cresciuto dall’interno verso l’esterno, come un corpo vivente. Ingrandendosi, ha «inghiottito» il corpo originario, di pianta irregolare. Occultando le cose più antiche. Apre la biblioteca, spalanca un breviario vecchio di seicento anni. «Abbiamo i nostri segreti - sorride - ma più semplici che nel "Nome della rosa"». Intanto le cucine si mettono in moto per la colazione, l’edificio si anima. Alle sette, il trillo dei telefoni e il ciabattare degli inservienti già scandisce i bioritmi, strettamente operativi, del luogo. Tutto è costruito per l’accoglienza. Qui ti senti atteso, desiderato. Tu, proprio tu, sei quello che loro aspettano. Le tavolate emanano una letizia che l’Italia ha dimenticato. Condivido latte e caffè con Sophie, una teologa svizzera con tre figlie. Ne ha una sola con sé, la più piccola. Se le porta in montagna a turno, per migliorare il rapporto con ciascuna. Preparo il sacco, la meta è Chamonix, la giornata è magnifica. Sul sentiero incontro un uomo con tre cani sanbernardo. E' bruno, forte, ha il sorriso ironico e il naso schiacciato da pugile. Si chiama Bernard Léger, è lui il «capo branco». I bestioni del Passo lo temono e lo amano, si alzano sulle zampe posteriori per leccarlo sul collo. Gli chiedo dei salvataggi, e lui fa una smorfia. «Erano bestie da guardia, le usavano nei soccorsi solo perché erano già qui. Non hanno nessuna disposizione a scavare nella neve, i golden retriver e i pastori tedeschi sono molto meglio. D’inverno li spediamo giù a valle». Già, ma allora a che servono? «Diable - risponde - servono alle foto dei turisti». Ride ancora, come un matto. Non gliene frega niente di demolire il mito.

Paolo Rumiz

Paolo Rumiz, triestino, è scrittore e viaggiatore. Con Feltrinelli ha pubblicato La secessione leggera (2001), Tre uomini in bicicletta (con Francesco Altan; 2002), È Oriente (2003), La leggenda dei monti …

La cattura

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