Guido Piccoli: C'era una volta il traffico di droga...

11 Febbraio 2004
Sei marzo 2002: una data importante per la storia del narcotraffico in America Latina. Nel giorno in cui il Congresso degli Stati Uniti chiede in maniera compatta a George Bush di aiutare la Colombia "a difendersi dalle minacce delle organizzazioni terroriste", il Segretario di Stato, Colin Powell, annuncia "aggiustamenti di rotta della politica statunitense, per andare più in là della lotta antidroga". In altre parole, per lasciarla da parte.
La svolta, a Washington, non crea alcun imbarazzo: nello stesso modo con cui, nel 1984, si sostenne che i guerriglieri fossero "narcoguerriglieri", adesso – rovesciando l’assioma – si decide di usare apertamente contro i "terroristi" ogni risorsa militare destinata in questi anni alla lotta alla droga. E cioè basi militari, battaglioni anti-narcotici e il loro arsenale – a cominciare dalla flotta di elicotteri da combattimento – e gli apparati di spionaggio (dagli aerei Awacs ai radar di terra).
In realtà per i popoli latinoamericani, e quello colombiano in particolare, cambia poco. Come per anni ha ripetuto – tra la commiserazione, l’incredulità e la disattenzione generale – un ristretto manipolo di giornalisti e attivisti politici, la "lotta alla droga" era solo la maschera di una politica di interventismo e di dominio statunitense su vaste aree del mondo, a cominciare dall’America Latina e in particolare in Colombia. E anche per questo è clamorosamente fallita.

L’IMPASSE DELLE FARC
L’ultima riprova viene dallo stesso Dipartimento di Stato Usa, che il sette marzo ha denunciato un aumento del 25% delle piantagioni di coca in Colombia nel solo 2001, nonostante lo spargimento aereo di veleni e la militarizzazione del territorio imposti dal Plan Colombia. L’aumento è in linea con il trend del quinquennio 1994-1998, quando – dopo l’uccisione di Pablo Escobar, lo smantellamento del cartello di Medellin e l’arresto dei maggiori capi di quello di Cali – nonostante l’annuncio dell’imminente scomparsa del commercio della cocaina, la produzione è aumentata del 140%.
Che la cosiddetta "lotta alla droga" – condotta senza agire sulla domanda, senza colpire il riciclaggio e soprattutto senza fornire un’alternativa di sopravvivenza alle centinaia di migliaia di cocaleros – servisse a lottare veramente contro il narcotraffico, potevano crederlo solo gli ingenui. Dopo il 6 marzo, neppure quelli. A questo punto sorge però un dubbio: il massiccio intervento statunitense nella regione andina è veramente finalizzato alla difesa del sistema democratico colombiano? O, piuttosto, la guerriglia colombiana rappresenta a conti fatti una "minaccia conveniente"?
Che soprattutto le Farc, Fuerzas armadas revolucionarias de Colombia, siano malviste a Washington è ovvio. Non solo perché, secondo fonti del Dipartimento Usa, hanno ucciso, negli ultimi anni, una decina di cittadini statunitensi – sequestrandone quasi un centinaio – ma anche perché rappresentano l’ultima guerriglia di un certo peso attiva in un continente apparentemente pacificato. Le Farc, però, nonostante i proclami, non hanno alcuna possibilità di innalzare la loro bandiera rossonera sul Palacio Nariño a Bogotà. Senza contare che la scelta di colpire le infrastrutture del paese – con attentati a ponti, strade, centrali e linee elettriche, acquedotti – non sta certo facendo loro guadagnare consenso, neppure di quella maggioranza popolare che si dibatte in una miseria sempre più disperata e che già guardava con distanza e scetticismo i negoziati svoltisi per tre anni nella zona del Caguán.
Quella colombiana non è una guerriglia isolata che rappresenta solo se stessa – come sostengono i tanti detrattori – ma non conta neppure sull’appoggio che avevano, ad esempio, i rivoluzionari cubani quando stavano sulla Sierra Maestra, i sandinisti negli anni precedenti la marcia su Managua nel 1979 o i membri del Fronte Farabundo al momento della loro offensiva su San Salvador. D’altronde, gli uomini di Manuel Marulanda, il vecchio "Tirofijo", non si sono mai posti l’obiettivo del consenso e tanto meno della conquista del cosiddetto immaginario collettivo, come invece hanno fatto, sempre in Colombia o nel vicino Perù, gruppi come M-19 o il Movimento Tupac Amaru, che hanno realizzato azioni clamorose di grande impatto mediatico, talvolta beffarde – come il furto della spada di Bolivar – e spesso suicide, come le occupazioni delle ambasciate.
Quella delle FARC è una guerriglia quasi impossibile da distruggere, ma, allo stesso tempo – per il suo atteggiamento egemonico, a tratti arrogante – incapace di erodere il sistema avversario al suo interno e di collegarsi con i movimenti sociali esistenti nel paese, non a caso più in sintonia con l’altro gruppo guerrigliero, il più debole Ejercito de liberación nacional (Eln).
Pericoli reali per il sistema colombiano, quindi, non ce ne sono. La combinazione tra le forze armate, sempre meglio addestrate e armate con la tecnologia bellica Usa, e l’esercito paramilitare delle Autodefensas unidas de Colombia (Auc), che ha raddoppiato i suoi reparti negli ultimi quattro anni, ha dimostrato – dopo avere colpito duramente molti fronti dell’Eln – di poter contenere qualunque progetto di conquista delle città da parte delle Farc. Al contrario, alcuni centri importanti come Barrancabermeja, Monteria, Bucaramanga e Santa Marta sono passati sotto il controllo delle Auc di Carlos Castaño e dell’italo-colombiano Salvatore Mancuso.

BRIGATA IN AFFITTO
Cosa nasconde il cambio di strategia statunitense? Anche in questo caso, la risposta viene dall’undici settembre. L’attacco agli Stati Uniti non soltanto ha reso superfluo l’uso da parte di Washington di maschere per la sua politica di dominio (come appunto sono state le "guerre umanitarie" o la "guerra alla droga"), ma ha fatto diventare ancora più importante il controllo del proprio "cortile di casa".
Lo sostiene la stessa ambasciatrice statunitense a Bogotà, Anne Patterson: "Dopo l’undici settembre le fonti tradizionali del petrolio sono meno sicure e, ora più che mai, è importante diversificarle, contando su quelle latinoamericane, anche per evitare eventuali speculazioni sul prezzo del greggio". La guerriglia colombiana preoccupa, quindi, soprattutto per i suoi attentati contro gli interessi economici statunitensi nel paese e, in particolare, contro gli oleodotti: il più importante in Colombia, quello che parte dal giacimento di Caño Limón per finire al porto caraibico di Coveñas, ne ha subiti 170 soltanto nello scorso anno. Per proteggere l’oleodotto della Oxy, il governo Bush ha deciso di finanziare una Brigata dell’esercito colombiano – la XVIII, di stanza nella regione petrolifera di Arauca – con novantotto milioni di dollari, da destinare in addestramento, armi, elicotteri e apparati di spionaggio, tutti rigorosamente "made in Usa". Un’operazione esemplare: il governo statunitense contratta – alla stregua di una compagnia di vigilantes privati – un reparto dell’esercito locale per metterlo al servizio della multinazionale, in questo caso con sede a Los Angeles. E lo fa scavalcando senza esitazioni – e umiliando – il governo "vassallo" di Bogotà. Per la Colombia è una storia vecchia che ricorda, ad esempio, il cosiddetto "massacro delle bananeras" del cinque dicembre 1928, descritto mirabilmente da Gabriel García Márquez in Cent’anni di solitudine, quando l’esercito colombiano sparò ad alzo zero contro la folla dei braccianti e dei loro familiari per difendere gli interessi della multinazionale United Fruit. Ma è anche un’emblematica storia di globalizzazione.
Con gli attentati e i sequestri, la guerriglia compromette i guadagni delle multinazionali petrolifere che, durante l’amministrazione Pastrana, hanno conquistato altre porzioni del territorio colombiano. Questo anche grazie a una settantina di autorizzazioni di esplorazione concesse dal Ministro del Sottosuolo e la drastica diminuzione sia delle tasse da pagare sui ricavati (dal 16 al 5%), sia delle quote minime di partecipazione, nelle loro attività estrattive, da concedere alla compagnia statale colombiana, la Ecopetrol (dal 50 al 25%).

SEMANTICA DEL TERRORISMO
Utilizzando il conflitto colombiano, gli Usa stanno rafforzando la loro presenza militare in una zona dell’America Meridionale che va dal canale di Panama e dalla costa atlantica fino alla foresta amazzonica e alla costa pacifica. È una regione ricca come poche altre al mondo di risorse strategiche – tra cui petrolio, acqua, carbone, uranio e biodiversità. Sono ormai più di mille i piloti e gli istruttori dell’Army Force o delle compagnie militari private (dalla Military Resources Professional alla Defense System e alla DynCorp), che agiscono in territorio colombiano, mentre molte altre migliaia operano nelle cittadelle militari fortificate che crescono come funghi in tutta la regione. Manta in Ecuador – a mezz’ora di volo dalle zone d’influenza delle Farc – Iquitos in Perù – sul rio delle Amazzoni – Curaçao e, soprattutto, Aruba, nel mar Caribe, sono soltanto gli avamposti più poderosi della macchina da guerra statunitense, dotati di notevoli arsenali bellici e piste di atterraggio per gli aerei-spia Awacs e bombardieri più pesanti come i B-52.
Per anni il governo statunitense, i governi locali e l’Unione Europea (le isole caraibiche sono tuttora possedimenti olandesi) hanno ribadito che queste basi sarebbero servite esclusivamente nella lotta al narcotraffico. Da adesso, verranno invece utilizzate ufficialmente contro il terrorismo.
Ma cosa intendono gli Usa per "terroristi"? In Colombia, sicuramente le Farc e l’Eln. Nella lista nera – capeggiata da Al-Qaeda – dei trentadue gruppi da colpire attraverso la campagna Enduring Freedom, ci sono in verità anche le Auc di Carlos Castaño, con le quali Washington mantiene un atteggiamento fariseo. Pubblicamente le condanna, così come critica (con le sue periodiche pagelline sul rispetto dei diritti umani nel mondo) l’esercito colombiano, accusato di mantenere con loro un’impudica unità d’azione. Nella pratica, però, non si è mai fatta alcuna remora a servirsene. Ad esempio nel 1993, quando la Dea e la Cia collaborarono con i fratelli Castaño nella caccia a Escobar, e, recentemente, nelle regioni meridionali colombiane (soprattutto nel Putumayo), dove – secondo le accuse delle organizzazioni umanitarie e le confessioni degli stessi capi paramilitari – le Auc si occupano di "ripulire" con i massacri (la loro specialità) le zone da sottrarre alla guerriglia.
La storia recente insegna che la politica statunitense è dettata da precisi interessi. Chi è "terrorista" oggi può diventare un "combattente della libertà" domani, e viceversa. Nell’accezione in uso a Washington, i "terroristi" vanno quindi ben al di là della guerriglia colombiana.

IL BRASILE FA OSTRUZIONE
Il progetto strategico degli Stati Uniti è l’allargamento a sud del mercato del Nafta (che coinvolge per ora, oltre agli stessi Usa, il Canada e il Messico), attraverso la creazione dell’Area di Libero Commercio delle Americhe (Alca) in tutto il continente. "Vogliamo garantire alle imprese nordamericane il controllo di un territorio che vada dall’Artico all’Antartide, il libero movimento per i nostri prodotti, servizi e capitali" ha detto Colin Powell. Molti – e non solo i ribelli colombiani – si oppongono all’idea di un immenso mercato "dollarizzato", dove i latinoamericani hanno l’unico ruolo di consumatori e servi ubbidienti.
È fuor di dubbio che alla Casa Bianca e al Pentagono siano meno preoccupati di Manuel Marulanda "Tirofijo" che di Hugo Chavez, presidente del Venezuela (proprio in queste ore detronizzato dai militari e subito dopo tornato a furor di popolo ad occupare la sua carica, ndr.).
Gli obiettivi che "Tirofijo" annuncia nei suoi proclami – da una vera riforma agraria ad un uso "nazionalista" delle risorse energetiche – sono gli stessi che Chavez, sebbene in maniera contraddittoria, cerca di realizzare. E su questi principi si ritrovano, in ordine sparso, anche i movimenti indigeni dell’Ecuador, che sono riusciti a far dimettere negli anni scorsi tre presidenti, quelli della Bolivia, che hanno bloccato le privatizzazioni e le fumigazioni aeree nel loro paese, e poi i movimenti popolari che, dal Brasile al Perù, vogliono bloccare – con l’arma del referendum – l’ulteriore subordinazione agli Usa.
Washington ha strategie diverse per ogni paese. I due estremi sono Panama, trattato come una colonia, e il Venezuela, per il quale è stata messa in moto un’operazione propagandistica che mira a un golpe militare. In mezzo, tutti gli altri paesi da "militarizzare", appunto, con la scusa di evitare il "contagio colombiano". I governi di Ecuador e Perù, ad esempio, hanno decretato lo stato d’emergenza nelle regioni di confine con la Colombia, con il conseguente spostamento in zona di decine di migliaia di soldati: ufficialmente per impedire le incursioni dei guerriglieri, in realtà soprattutto per proteggere gli interessi e i progetti di sfruttamento delle multinazionali presenti e, in particolare, delle compagnie petrolifere. Il gioco è ancora più complicato con il Brasile, ottava potenza economica mondiale, che ha dimostrato poco interesse a sciogliere il Mercosur, l’accordo che lo lega agli altri paesi del continente, e a regalare le immense risorse naturali dell’Amazzonia alle brame delle multinazionali statunitensi. L’accordo firmato dalla compagnia petrolifera statale con quella venezuelana è apparso una provocazione per Washington. Anche il governo brasiliano, come quello di Quito e di Lima, ha mandato altre truppe al confine con la Colombia (ai ventitrèmila uomini già presenti ne sono stati aggiunti altri 6mila, nel quadro della cosiddetta operazione Cobra). Ma, a differenza degli altri paesi più piccoli, non ha voluto nessuna base Usa sul suo territorio, seguendo in qualche modo l’esempio del Venezuela, che ha rifiutato anche l’uso dello spazio aereo all’aviazione statunitense.

LO "SHARON COLOMBIANO"
Nel futuro prossimo, la guerra infinita e a tutto campo contro il terrorismo proclamata dopo l’undici settembre non risparmierà il "cortile di casa" degli Usa. La linea dura di Bush troverà un entusiasta partigiano in Alvaro Uribe Velez, il più che probabile prossimo presidente colombiano. Ha i requisiti giusti per Washington: nemico dichiarato di qualunque negoziato con la guerriglia, tifoso dei peggiori violatori dei diritti umani in divisa, fautore del coinvolgimento dei civili nella guerra, è il candidato ideale dei paramilitari. Di lui il capo delle Auc, Carlos Castaño, ha detto: "È l’uomo più vicino alla nostra filosofia e potrà fare solo del bene al paese". Oltretutto, Uribe Velez è anche un politico ricattabile per le sue pubbliche amicizie con vari e noti narcotrafficanti. È quindi prevedibile che diventi il guerriero più servile nelle mani della Casa Bianca, l’uomo al quale affidare anche i regolamenti dei conti in zona, a cominciare da quelli con Chavez.
Qualcuno, a Bogotà, ha cominciato a chiamarlo "lo Sharon colombiano", ed è più che probabile che i suoi risultati saranno simili a quelli ottenuti dal primo ministro israeliano. Una prospettiva inquietante non solo per la Colombia, pur abituata a guerre e massacri, ma per tutta la regione circostante.

Colombia, il paese dell'eccesso di Guido Piccoli

Una delle necessità del neoliberismo è di trovare metodi efficaci di contenimento dell’antagonismo che inevitabilmente genera. Uno di questi metodi è il cosiddetto "sistema del passero", sperimentato con sanguinoso ma straordinario successo in Colombia e suggellato con la recente elez…