Gabriele Romagnoli: La favola delle scarpe di Totti

22 Giugno 2004
Ci dev'essere, da qualche parte in Indonesia, Vietnam o Sri Lanka, un bambino di dieci anni, sfruttato e malpagato, che ha improvvisamente scoperto il sapore della felicità. Ha mal conciato una tomaia, stracucito un calzino e alè, è successo l'imprevedibile: i puponi viziati si son messi a piangere, il più costoso giocattolo in circolazione si è rotto ed è caduta, perfino, l'ultima vera dittatura mondiale, quella dello sponsor, improvvisamente convertito ai valori della libera scarpa in libera Europa. Il re è nudo, con le vesciche ai piedi. Che bella favola sarebbe, se soltanto potessimo crederci. C'erano una volta ventidue uomini che giocavano a pallone. Se uno si faceva male, cercava di resistere. Se non si era fratturato un pèrone, andava a fare lo zoppo all'ala e qualche volta si rendeva pure utile. Adesso entrano in campo una trentina di galacticos che fanno meraviglie nelle pause pubblicitarie e pena dal vivo, poi escono e accusano scarpe e calzini. "Smettiamola prima di renderci ridicoli", ha detto Nesta, ma è stato uno dei suoi rari interventi tardivi. Erano già cominciate le comiche. Totti si era lamentato perché "gli sembrava di giocare sulla sabbia bollente", ossia la situazione che ha formato schiappe come Pelè, Garrincha e Zico. Panucci aveva rivelato la tortura subita da un "filo di cotone spesso", fiabescamente sensibile come la principessa sul pisello. Dispiace prendersela con questi ragazzi. Per tre motivi. Primo: sparare su Beckham e i suoi fratelli è diventato uno sport di massa. Secondo: anche così, fai loro pubblicità. Terzo: non si sarebbero convinti di essere altro che calciatori se centinaia di migliaia di persone non avessero comprato i loro libri e sottolineo la parola libri. Ma questi prìncipi sulla vescica rischiano di declinare al ribasso la parola "campioni", incarnandone il significato secondario di "esemplari". L'esempio che danno è già ampiamente diffuso: si possono assumere molte cose, ma non la responsabilità. Non si dice: "Non ero in giornata", "Ho sbagliato", "Farò meglio alla prossima". Si parla di rossore ai talloni, invece. E non ce n'è neppure bisogno. Quando l'Under 21 di Gentile le ha prese dalla Bielorussia, usando gli stessi calzini, ha tenuto la testa bassa e l'ha rialzata insieme con la Coppa. Forse l'ha vinta anche per quello. Qui, invece, siamo già all'alibi, che come sport nazionale è pari al calcio. Una partita che doveva essere vinta con la testa è stata preparata badando piuttosto alle acconciature e l'esito infelice viene imputato non alla scarsa bontà dei piedi, ma a quella delle calzature. Esistono molte autorevoli teorie su quale momento abbia segnato la fine del calcio come era stato immaginato: il gol di Turone, le luci di Marsiglia, la sentenza Bosman. Nel novero va fatta rientrare anche la stagione in cui improvvisamente apparvero scarpette bianche, rosse, grigio metallizzato, spostando l'attenzione dall'atleta all'accessorio, avviando il percorso che avrebbe reso l'atleta stesso accessorio, sostegno a cui appendere divise, occhiali, un orecchino di qua e un cellulare di là, una valletta sotto un braccio e sotto l'altro un libro, il suo. Se oggi possiamo credere che il rendimento di un calciatore dipenda da quel che indossa, siamo alle soglie di una controrivoluzione copernicana, di un ribaltone ontologico per cui l'essenza è determinata da ciò che l'avvolge o, invece, ci siamo rimbambiti e, dopo essere precipitati dalla scarpa di Kruscev a quella di D'Alema, ora vogliamo scavare sul fondo e filosofeggiare su quella di Totti. Così non è, perché non crediamo né alle polemiche né alle favole. Non c'è nessun bambino felice in Indonesia (lo sponsor non ne usa più, vero?), non ci sono fili a manovrare le mosse di Panucci, questo non sarà il migliore dei mondi possibili e la predeterminazione (specie se contrattuale) può avere parte nelle cose, ma abbiamo abbastanza libero arbitrio da scegliere che cosa metterci ai piedi. Non c'è l'eternità a disposizione, ma centottanta minuti sì, per dimostrare che l'essenza non è l'apparenza e uno scarpino non fa uno scarpone.

Gabriele Romagnoli

Gabriele Romagnoli (Bologna, 1960) Giornalista professionista, a lungo inviato per “La Stampa”, direttore di “GQ” e Raisport è ora editorialista a “la Repubblica”. Narratore e saggista, il suo ultimo libro è …