Gabriele Romagnoli: La guerra santa delle immagini

22 Giugno 2004
C'è qualcosa di nuovo sul fronte orientale: la guerra (santa o sporca, dipende dai punti di vista) è anche mediatica e si combatte a colpi d'immagini. è una battaglia serrata: tu mostri la decapitazione dell'ostaggio, io il cadavere di chi l'ha ordinata. Le sue ragioni vanno oltre la ferocia esibizionista. I suoi protagonisti si rivolgono a pubblici (il termine può mettere a disagio, ma questa è una guerra con spettatori seduti e molto paganti, voi siete tra questi) diversi. I suoi prossimi episodi possono essere previsti, ma non immaginati. Andiamo per ordine. Perché ci fanno guardare. L'abusata frase "se un albero cade nella foresta ma una telecamera non lo riprende, l'albero non è caduto" vale il doppio nei Paesi arabi, il triplo nell'Arabia Saudita.
In nessun altro luogo al mondo l'informazione è così controllata. Nel 1991 sei giornali sauditi pubblicarono il seguente identico titolo: "Il Consiglio dei Ministri si è riunito, ha discusso vari argomenti e preso le opportune decisioni". Non più credibile è la stampa estera quando parla di Riad e dintorni. I Saud comprano i giornali come noi andiamo all'edicola e, con gli spiccioli del resto, comprano anche i giornalisti. Le notizie sgradite alla casa regnante (esecuzioni capitali pubbliche, ma per domare rivolte; diritti civili calpestati; perfino epidemie) sparivano in un imbuto dorato da cui gocciolava folklore. Nelle 30 mila pagine pubblicate negli Anni Settanta dai media occidentali riguardo l'Arabia Saudita l'argomento "mogli del re" batteva venti a uno quello "tasso di analfabetismo" (all'epoca: 50%). L'opposizione non aveva strumenti di comunicazione (salvo urlare inascoltata dall'esilio) fino alla scoperta di Internet. A farne uso per primo è stato il Movimento per la Riforma Islamica guidato dal salafista Dad’al-Faqih. Ha insegnato agli adepti come collegarsi tramite server stranieri e non essere rintracciati dai Servizi sauditi. Al Qaeda ha rappresentato la doppia estremizzazione: quella del medium e quella del messaggio. Aveva bisogno del medium perché altrimenti qualunque cosa fosse successa sarebbe stata cancellata, come mai accaduta (la famiglia di un ostaggio americano ucciso sarebbe probabilmente da oggi in vacanza permanente su un'isola caraibica a spese della ditta Fahd & Cheney). E aveva bisogno del messaggio, ma i suoi destinatari sono particolari. Chi deve guardare. Nel botta e risposta visuale delle ultime ore tra Al Qaeda e la tv di stato saudita e più in generale in tutta la guerra d'immagini in corso, si "spara" su audience differenti. Le decapitazioni di ostaggi sono diffuse inizialmente da siti Internet. Con la paradossale eccezione della Siria (il giovane re è cibernauta appassionato dai tempi di Londra), dove però sono più i siti censurati di quelli accessibili e quella dei piccoli Emirati, l'accesso alla rete nei Paesi arabi è pari alla percentuale dei minuti di pioggia. Tv e giornali non sempre riprendono quel che è notizia su Internet. L'immagine, per lo più, scompare. I quotidiani hanno ripubblicato a tutta pagina i maxipannelli incorniciati sulle autostrade iraniane con le foto di Abu Ghraib, non certo quella del decapitato Nick Berg. Non è alle masse arabe che si rivolge il messaggio. Gli obiettivi sono altri due. Primo: l'élite combattente, alla quale vengono trionfalmente mostrati i trofei, invitando all'emulazione. Secondo: le masse occidentali, alle quali quei trofei suscitano orrore, per indurle a ritrarsi non solo metaforicamente e spingere per l'abbandono del suolo islamico in ogni forma. Ragioni e "target" della controffensiva per immagini "governativa" sono diverse. Lo scopo è la certificazione, il pubblico è il popolo sottomesso. La menzogna di Stato è regola, quel poco di credibilità che una versione ufficiale poteva avere è stato dissipato nel 2003 dagli show del ministro per l'informazione irachena Sahhaf. Occorre far vedere le carte per non essere tacciati di bluff. Gli americani lo hanno capito presto e hanno mostrato la strada esponendo i cadaveri dei figli di Saddam alle telecamere e poi lui stesso dopo la cattura. Il corpo senza vita di Al Muqrin svolge la stessa funzione. Il problema è che il popolo pensa rapidamente che chi manipolava i fatti può manipolare anche le immagini. Questo accade a occidente come a oriente. Decine di teorie del complotto circolano sui video della decapitazione di Berg e su quello del rilascio degli ostaggi italiani. Centinaia, ancora, sulle immagini dell'11 settembre. Se c'è chi crede che nessun aereo sia caduto sul Pentagono, quanti potranno dubitare dell'autenticità di una salma? Che cosa ancora guarderemo. Occorre prepararsi a questo: ci attende un'escalation. Dell'orrore e delle sue immagini. Possiamo sperare che non sia così, ma la logica dice il contrario. Leggere per credere. Uno dei più acuti saggi sulla storia che stiamo vivendo è Al Qaeda e il significato della modernità, di John Gray. Scrive, tra l'altro: "Al Qaeda è un'organizzazione essenzialmente moderna. è moderna non solo per il fatto che fa uso di telefoni satellitari, computer portatili e siti Internet criptati. L'attacco alle Torri Gemelle dimostra che Al Qaeda ha capito che le guerre del XXI secolo sono scontri spettacolari in cui la diffusione delle immagini da parte dei media è una strategia centrale". L'idea che questi signori siano cavernicoli invasati dal Corano è buona per i comici di seconda serata americana e per gli spacciatori di invettive di tutta Europa. I Taliban distruttori di tv erano un esperimento genetico attuato da uomini ben più raffinati e consapevoli, che hanno viaggiato, annotato e riprodotto sistemi e tempi altrui. Li disprezzano, ma li sanno usare. Conoscono ritmi e codici della fiction. Li useranno. Se un episodio non è più forte del precedente, la gente non guarda più. Hanno imparato la regola. Bisogna saperli anticipare. Non occorrono profeti per divinare il futuro. Bastano uomini intelligenti. Nel suo libro L'Arabia Saudita e il dissenso Mamoun Fandy, docente a Georgetown, scriveva: "Se Bin Laden ucciderà, non lo farà né per l'Islam né per la jihad, ma per conquistare spazio in tutte le televisioni del mondo". Lo scriveva nel 1999, le Torri Gemelle erano in piedi.

Gabriele Romagnoli

Gabriele Romagnoli (Bologna, 1960) Giornalista professionista, a lungo inviato per “La Stampa”, direttore di “GQ” e Raisport è ora editorialista a “la Repubblica”. Narratore e saggista, il suo ultimo libro è …