Gabriele Romagnoli: Pistole, bare e plastiche facciali. La vita vista dai nuovi telefilm

09 Luglio 2004
Eravamo (più o meno tutti) così impegnati a parlar male della televisione che non ci siamo accorti di quanto fosse (almeno in parte) diventata bella. La "meglio tv" è rappresentata dalle lunghe serialità americane. Più del cinema, a volte perfino più della letteratura contemporanea, sanno raccontare la realtà, ne colgono le novità, divertono e, al tempo stesso, affrontano temi alti che nessun talk show affollato di esperti discuterebbe per paura dell’audience. Invece, catturano pure quella, perfino in Italia, dove la loro stagione è appena finita.
In una capsula del tempo di questo inizio millennio sarebbe sacrosanto mettere i dvd di Sopranos, Six Feet Under e Nip/Tuck. Le tre serie sono ambientate in contesti diversi e lontani: I Sopranos in una cosca mafiosa del New Jersey, Six Feet Under in un´impresa di pompe funebri californiana, Nip/Tuck in una clinica di chirurgia plastica a Miami. Eppure hanno molte cose in comune.
Anzitutto, la qualità della scrittura. Ancora più alta di quella delle riprese, che pure sono a livello cinematografico. David Chase, Alan Ball (l´autore di American Beauty) e Rian Murphy sono puri narratori dell’America contemporanea e dell’Occidente. Si sono autoprodotti e hanno conquistato dai network carta bianca (nessun capostruttura a dirgli che cosa "la gente guarda"). Ne hanno fatto buon uso. Hanno saputo rappresentare gli uomini, le donne e i ragazzi di questo tempo per quello che veramente sono, fuori e dentro, nelle parole come nella sessualità.
Non c´è un abito sbagliato: il giovane gangster del New Jersey si concia come uno che vuole essere cool a Manhattan, ma ogni volta che ci va la sua pretesa si spoglia; il becchino che fu ribelle a Seattle ha i pantaloni sformati; il chirurgo play boy le camicie a tinte forti. Non c’è un solo atteggiamento fuori posto: gli uomini hanno le crisi dei quarantenni, quelli che hanno una famiglia vogliono disfarsene, quelli che non l’hanno mai avuta decidono di farsela, il rimpianto consuma entrambi, prima e dopo; le donne hanno qualche anno di meno, quelle che non hanno l´indipendenza combattono per conquistarla, quelle che l’hanno raggiunta non sanno che farsene; i bambini guardano e crescono senza modelli, arroganti per nascondere la paura di diventare qualcuno che non avrebbero mai voluto essere.
Tutto questo non accade in plastificati tinelli, ma in night club, cimiteri, sale operatorie piene di sangue, luoghi dove la telecamera di uno sceneggiato italiano non entrerebbe mai. E intanto qualcuno muore di eutanasia, qualcun altro ucciso con innocente ferocia, qualcuno in maniera grottesca nell’inevitabile prologo che avvia Six Feet Under. E ognuno fa sesso, ma non in quella forma univoca e paradossalmente asessuata a cui la tv ci è abituato. Il campionario può parere eccessivo. Nei Sopranos una intera puntata gira intorno all’opportunità per un mafioso di praticare il cunnilunguus, in Six Feet Under il becchino gay non riesce a non concedersi una sveltina nella cripta con l´idraulico tradendo il compagno poliziotto (e, passata esperienza di story editor, in Italia il personaggio di un poliziotto gay, benchè casto, ancora suscita opposizioni ad alti livelli), in Nip/Tuck il figlio di uno dei protagonisti vive l´iniziazione al sesso in forma di triangolo con due ragazze.
Troppo? Perché? Il pubblico che paga il canone o il satellite è fatto di frati? E anche fosse, guarda caso le serie (soprattutto Six Feet Under) sono state elogiate dai media cattolici. Hanno apprezzato anche loro la qualità dei temi affrontati. Perché quando questi dialogano non parlano solo del ragù. Tre esempi. In una puntata dei Sopranos, Tony, il boss, è seduto accanto a una donna russa di cui diverrà amante. A lei manca una gamba, ma è serena. Lui ha tutto quel che ha saputo desiderare, ma è irrequieto. Lei gli dice: "Voi, in questo paese, avete messo nella costituzione il diritto alla felicità. Non vi basta essere vivi, pretendete troppo dalla vita". Lui, più tardi, cita la frase alla sua analista. Lei replica: "E cosa c´è di sbagliato? Non è questo che deve fare una civiltà? Soddisfatti i bisogni primari cercare qualcosa di più?". Tony in tre minuti ha affrontato il dilemma delle società evolute, senza strepiti di sociologi & soubrette e porte che si aprono sullo sfondo.
In Six Feet Underl´ereditiera insoddisfatta a cui è morta la zia, l´unica persona che la capisse, si scioglie in lacrime davanti all´ex ribelle venuto da Seattle. Fa una di quelle domande stupide e ineluttabili: "Ma perché si deve morire?". Lui , tranquillo, risponde: "Per dare importanza alla vita". Provate a chiederlo a un prete che sull’altro canale difende il governo in carica.
In Nip/Tuck, uno dei due chirurghi accompagna la sua terminale amante al "loro" motel e la guarda prendere le pillole che pongono fine alla sua sofferenza. Poi lo ritroviamo al funerale, seduto accanto all´ignara moglie che l’ha accompagnato. E di nuovo sulla scogliera, con una parte delle ceneri da gettare in mare. Esita. Il suo socio si avvicina. Gli dice qualcosa che non sentiamo. L’altro annuisce, esegue. Sullo sfondo, gli occhi della moglie si allargano, ha capito tutto.
È tutto autentico. Estremizzato, certo, per renderlo fruibile, colorato per renderlo pop, ma autentico, nel fondo. E spiazzante. Ti siedi in un cinema e Hollywood (per non dir del resto) ti rifila commedie i cui sviluppi viaggiano su binari segnati e già percorsi. Quando Tony Soprano apre una porta, un cliente entra alle pompe funebri Fisher o alla clinica Mc Namara & Troy, non sai mai che cosa troverà e che reazione si scatenerà. L’unica certezza è che questi sono uomini, donne e ragazzi del nostro tempo e ce lo stanno raccontando. In America conquistano premi, in Italia spettatori di mezzanotte. Li tiene lontani dalle prime serate il ferale pregiudizio che "il pubblico sia un undicenne, neppure troppo sveglio". Il pubblico è fatto di uomini e donne in crisi, che cercano felicità e sesso, si arrabbiano, vanno dall´analista, tornano ancora più arrabbiati, fanno e si fanno del male e sconsolati si chiedono: "Ma perché si deve morire?". Dobbiamo aspettarci una risposta dalla marchesina innamorata del fattore?

Gabriele Romagnoli

Gabriele Romagnoli (Bologna, 1960) Giornalista professionista, a lungo inviato per “La Stampa”, direttore di “GQ” e Raisport è ora editorialista a “la Repubblica”. Narratore e saggista, il suo ultimo libro è …