Paolo Rumiz: Mostar, Bosnia. La città è ancora divisa

19 Luglio 2004
Il ponte di Mostar ritorna. Abbattuto dai cannoni croati il 9 novembre 1993, sarà restituito alla città il 23 luglio, dopo anni di lavori, quasi identico a quello di prima. L'evento dell'inaugurazione restituisce alla Bosnia la mitica parabola di pietra rimasta sospesa per tre secoli sull'acqua verde della Neretva. Costruito dall'architetto turco Hajruddin durante l'occupazione ottomana dei Balcani, il Ponte Vecchio era diventato il simbolo dell'incontro fra Oriente e Occidente, il luogo della memoria di un grande polo d'incontro fra cattolici, musulmani e ortodossi. Ora si spera che, attorno a quel simbolo ritrovato, la città ritrovi anche l'unità, spezzata da anni di guerra e feroci divisioni etniche. "Qui è Palestina" sta scritto sui muri di Mostar, a conferma che un muro esiste ancora e che ogni ponte destinato a scavalcarlo può essere vissuto da alcuni come un disturbo. Dietro, c'è qualcosa di peggio della guerra: la memoria di un tradimento. Quello dei croati, che fino al maggio del 93 avevano difeso la città dall'aggressione serba fianco a fianco con i musulmani, e poi su ordine di Zagabria aggredirono questi ultimi, distruggendo la parte est di Mostar ed espellendone circa 30 mila persone. Poi, ovviamente, arrivarono le vendette: e oggi non è facile sapere se lo Stari Most - ripristinato su volontà dell'Unesco con i soldi della Banca mondiale e numerosi sponsor - riuscirà ad attecchire, oppure sarà respinto come un corpo estraneo da una comunità ferita. Il ponte ritorna, ma Mostar? Si fa la spesa insieme, ci si vede per strada, ma di fatto la città è divisa, o è stata divisa fino a ieri nelle sue principali funzioni. Due sistemi postali, due reti elettriche, centri sportivi e culturali spaccati per appartenenza religiosa; c'è chi aveva proposto addirittura due università e due ospedali. Non c'è unità nemmeno sul valore da assegnare al ponte che rinasce. Che cos'è: un'opera d'arte ottomana o il simbolo dell'incontro fra Europa e Islam? Un manufatto di pietra o il luogo della memoria collettiva? La vecchia popolazione non aveva dubbi, lo Stari Most era la seconda cosa. Per questo fu abbattuto. Era il simbolo e non la pietra che si voleva disintegrare. Tutta la guerra in Bosnia si è concentrata sui simboli dell'appartenenza culturale e religiosa. La biblioteca di Sarajevo è solo un esempio. A Mostar i bombardamenti hanno colpito, oltre al ponte ottomano, la chiesa francescana, i minareti, il vescovado ortodosso. Distruggere la pietra antica significa ipotecare il futuro; tagliare la memoria di chi verrà, dirgli che la coabitazione non è mai esistita, non può esserci, dunque non ci sarà mai. È il modo più facile per distruggere, sradicandola, una comunità plurale. Per questo, nel '93, la gente di Mostar non volle nemmeno vedere la distruzione del ponte. Oggi, dopo una guerra feroce e soprattutto dopo che la città è stata ripopolata da immigrati cattolici e musulmani estranei alla cultura locale, il senso del ponte non è più lo stesso. Don Kreso Puljic, parroco di Santa Ivana, per esempio, fatica a capire tutto questo interesse internazionale per un manufatto. Lamenta l'eccesso di moschee, cresciute da 13 a 37. E non spiega che quelle moschee, forse, sarebbero rimaste 13 se qualcuno non avesse cominciato la guerra con la scusa di un fondamentalismo che in Bosnia non esisteva ancora. Accenna ai "traumi della dominazione turca", lamenta l'invadenza dei capitali arabi, spiega che la mancata realizzazione di un territorio autonomo per i croati cattolici è stato "una tragedia". Molti a Mostar faticano ad accettare la fretta con cui la comunità internazionale cerca di impostare la convivenza, calandola in qualche modo dall'alto. Molti non dimenticano che nel 1993 furono le Nazioni Unite, attraverso i negoziatori Cyrus Vance e Robert Owen, ad acuire il conflitto, disegnando una Bosnia divisa, dove la parte croata avrebbe avuto Mostar come capoluogo. "Le stesse persone che prima ci dicevano che non potevamo vivere assieme perché eravamo diversi, oggi, a guerra finita, ci dicono che dobbiamo vivere assieme perché siamo tutti eguali", lamenta il vescovo di Sarajevo. "Entrambi sono discorsi inaccettabili. La convivenza si costruisce sull'accettazione della diversità". Se non c'è il rancore o l'amnesia, c'è talvolta la banalizzazione. "Andate a visitare Mostar e le sue meraviglie d'Oriente!", leggi sui dépliant delle agenzie di viaggio croate sulla costa dalmata. La Neretva è a due passi da Curzola e Brazza, si può andare e tornare in giornata. Basta non andare troppo per il sottile, non interessarsi troppo ai villaggi musulmani che precedono la città sul basso corso della Neretva, completamente distrutti dalle mine per impedire il rientro degli abitanti. Insomma: tutto dimenticato, l'orrore è già diventato esotismo. In città ci si chiede: l'Unesco ha avuto il suo giocattolo, ma a Mostar chi pensa? Arrivano le televisioni e le reti globali, ma poi, a festa finita, che succede? Il ponte è rifatto, ma chi rifà la comunità? "La situazione è migliorata", spiega l'architetto Francesco Siravo, della fondazione Aga Khan che si occupa di restauri. "Quando arrivai qui alla fine del '99 il viale centrale era ancora come una trincea dopo un bombardamento a tappeto. I ponti distrutti, i giardini dei parchi pieni di tombe fresche. Oggi si sono superati molti risentimenti, la città ricomincia a funzionare, gli intellettuali delle due parti si parlano. Ma la strada è lunga". Intanto la guerra che si è accanita sulle pietre, continua con le pietre anche in tempo di pace. A Mostar Est si erigono moschee finanziate dall'Iran o dai Sauditi; così numerose che persino i musulmani locali ci ridono sopra, dicono "Samla" al posto di "Salam", e quell'inversione di sillabe è uno sberleffo ai politici islamici che vorrebbero mettere il saluto arabo al posto dello slavo "Dober dan". A Ovest la chiesa francescana ricostruita è diventata un mostro di cemento che torreggia per superare in altezza le moschee. Il rischio da evitare è quello di un ponte senza sponde. Aggrappato al nulla.

Paolo Rumiz

Paolo Rumiz, triestino, è scrittore e viaggiatore. Con Feltrinelli ha pubblicato La secessione leggera (2001), Tre uomini in bicicletta (con Francesco Altan; 2002), È Oriente (2003), La leggenda dei monti …

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