Paolo Rumiz: La rotta per Lepanto. Un mare pieno di disordine

14 Settembre 2004
Il vento rinforza, il mare blu cobalto si avviluppa in creste bianche regolari come in un quadro giapponese. Puntiamo su Meleda, l'isola del miele, l'antica Melita. Melita, in greco, erano anche Malta e Mileto. Stesso nome per tre isole diverse del Mediterraneo. In quale delle tre sia arrivato Ulisse, e mille anni dopo l'apostolo Paolo, dio solo sa. Ma le api, quelle sì, a Meleda ci sono di sicuro. Ronzano nella baia di Porto Palazzo, tra le case dei pescatori e i ruderi di una villa di Diocleziano imperatore. Anche la sera ha il color del miele, la macchia mediterranea diventa rossa, poi bruna. Ogni isola è un microcosmo sigillato. Non si chiama isola per niente. Vale anche per gli animali. Premuda è piena di vespe. A Sabbioncello, sul monte Sant'Elia, di notte senti gli sciacalli. A Lesina, sulla penisola di Cavallo, trovi le martore, le mitiche "Kune" che hanno dato il nome alla moneta nazionale croata. Meleda era così piena di vipere, che qualcuno vi portò il loro peggior nemico, le manguste. Risultato, zero vipere e un'inflazione di manguste. Nell'incertezza, non approderemo a nessun molo, non vogliamo roditori a bordo. Notte alla fonda, sotto milioni di stelle.
La catastrofe delle catastrofi su una barca a vela si chiama "topo a bordo". Peggio se è un topasso, un bestione da angiporto. Ai tempi di Lepanto costui era inquilino fisso delle navi da mercanzia. Devastava ogni cosa commestibile e aveva una diabolica capacità di nascondersi. La sua astuzia era tale che era impensabile non premunirsi imbarcando un gattone, la presenza del quale - pensate - era addirittura codificata nei contratti di spedizione delle merci. "Se roba stata guasta per Topi nella naue, & in naue non vi è Gatto - recita questo fenomenale testo del 1544 riportato da Franco Masiero ne Le rotte della Serenissima - il padrone della naue è tenuto menda fare della roba che sarà messa in naue, et fussi scritta nel cartolario". E ancora: "Se roba guasta per Topi, & in naue non vi sarà Gatto, il padrone non è tenuto a risarcire il danno se dichiara che quando era cominciato il carico e quando si era partiti i Gatti c'erano ed erano morti durante il viaggio, così che i Topi avevano potuto agire indisturbati". A Trstenik, il paese dove capitan Erni è venuto a riprendermi sul lato Sud di Sabbioncello, c'era per l'appunto una barca francese con topo a bordo. Un pandemonio, con tutti gli abitanti sul molo a godersi la scena. Colpi, urla, pianti di donna, passeggeri affranti. Il clandestino era sbucato in mare aperto, si era imbarcato chissà dove. Per fortuna dal paese è arrivata l'idea giusta: cercare nel boma. E difatti era lì. Due occhietti nel buio. Furbissimo, rintanato nel posto più impensabile. È finita col boma smontato, legato a due cavi e buttato in mare, con le francesi indemoniate a scandire con urla ogni fase dell'esecuzione. E il paese divertito a tifare per il ladro.
Il giorno dopo il vento rinforza ancora, si imbottiglia nel canale fra Meleda e le isole Elafiti, preludio di Ragusa. Diventa scirocco duro, con onda lunga, nauseante, da Otranto. Il bollettino meteo dice bora e pioggia a Nordest, buriane verso Sud. Estate matta. Per capitan Erni è l'ultima tappa del viaggio, io non so come diavolo proseguire, ma mi dicono che nella marina di Ragusa non avrò difficoltà a trovare un passaggio per il Montenegro e oltre. Per ora non ci penso, il mare mi chiama a un'altra priorità. Lo stomaco. Si balla forte, scirocco con punte di 40 nodi. Qui lo chiamano "Jug", Sud. Zigzaghiamo inclinati di 45 gradi, sottocoperta son franati i libri, un salame, il cannocchiale. La prua entra tutta in acqua, ne esce, si arrampica verso il cielo, ricade. Secondo i manuali la situazione è "Rough" o "Very rough", un tempaccio con poche vele in giro; e quelle poche, a motore. Controluce e controvento il mare diventa color zinco, un gabbiano veleggia allo zenith. La macchia mediterranea di Meleda ripete il movimento delle onde, ha invaso tutto, divorato lecci e ulivi. Anche la nausea arriva a ondate. Brutto il mal di mare, ti svuota completamente. Ti taglia le gambe. Poi ti vergogni, cerchi di vomitare lontano dalle signore, così fai peggio e rischi di finire in acqua. Fioccano i consigli: mangia pane secco, bevi acqua, succhia una caramella. Ma tu non hai voglia di un beatissimo niente. Solo stare in pace. Per fortuna infiliamo la "porticina" quasi invisibile tra Sabbioncello e l'isola di Olipa, il mare si calma e lo stomaco anche. "Bocca pompeiana" chiamano quello stretto, perché anche Pompeo, inseguito da Cesare, si sarebbe infilato lì. In una baia, a stomaco vuoto, mi mette a posto solo un micidiale amaro istriano.
Al riparo delle Elafiti il mare è piatto come un lago di montagna, la barca diventa un ghepardo, incrocia velocissima il traghetto Liburnia, supera la Santa Ana, una barca di New York che naviga di solo fiocco, poi un gabbiano enorme che sembra fare surf su un pezzo di poliuretano. A babordo, sotto un cielo biancastro, la muraglia della terraferma che precipita. Dietro quella muraglia ricompare minaccioso il Turco, il confine ottomano passava sulla linea di cresta. Qui la Croazia è una striscia di terra minimale. Ormai è Ragusa, passiamo sotto il nuovissimo ponte "Dottor Franjo Tudjman", 518 metri di campata unica all'ingresso del fiordo che porta alla marina. L'ultima volta che ero qui, nel '91, bombardavano dalle montagne. Non era guerra, era invidia dei montanari per la costa dei signori. I buchi dei mortai ci sono ancora sulla banchina, a buona memoria di chi arriva per la prima volta. È anche un modo redditizio di dire: non proseguire, amico, verso il mondo del disordine. Resta in Croazia. E difatti, come appuro immediatamente, pochissimi si azzardano ad andare oltre. Noi della Xpresso non amiamo le marine, sono penitenziari di lusso. Ma questa va vista, in quel canalone sotto le selvagge rocce bosniache, con i reggimenti di charter, i ristoranti strapieni, l'odore di grigliate, le barche miliardarie, ma i buchi delle bombe ancora lì, le barche sforacchiate dai mitra che nessuno ha tolto, come se il tempo si fosse fermato. L'insalata serba, ovviamente, non la fanno. Ma il crème caramel ha un perfetto nome veneziano, Rosada. Alla reception, quando vedono che siamo di Trieste, passano subito all'italiano.
Eppure Ragusa, la quinta repubblica marinara, fu la grande avversaria di Venezia in Adriatico. Dal Quattrocento fu vassalla del Turco, ma il Turco la lasciò cristiana. Troppo preziosa la sua posizione di disturbo su Venezia. I veneziani, per questo, non vollero i ragusei a Lepanto. Non si fidavano. E i ragusei, che erano più levantini dei veneziani, offrirono egualmente dieci navi per la battaglia, ma a noleggio. Insomma, andarono in guerra come navi, non come bandiera. Una soluzione furbesca che poteva tornare buona chiunque avesse vinto. Sera fresca, è la corrente risorgiva della Dubrovacka che erompe dagli strapiombi. Ci ormeggia accanto una barca svedese in viaggio da due anni. Marito e moglie soli, dio solo sa come non litighino. In ogni porto tirano fuori i vasi di gerani e trasformano la barca in casetta. Preparo i bagagli sulle scale di una villa settecentesca in totale abbandono. Ammaino il Leone, lo piego in valigia. Domani albergo, chiappe in terraferma, buoni vecchi libri da leggere. E l'attesa di un'anima buona per continuare il viaggio.

Paolo Rumiz

Paolo Rumiz, triestino, è scrittore e viaggiatore. Con Feltrinelli ha pubblicato La secessione leggera (2001), Tre uomini in bicicletta (con Francesco Altan; 2002), È Oriente (2003), La leggenda dei monti …