Giorgio Bocca: Baghdad e Kabul come Saigon

01 Ottobre 2004
La guerra del Vietnam, per come la ricordo, è molto simile a quella dell'Iraq e penso che finirà allo stesso modo, l'unico possibile: con il ritorno a casa degli occupanti. Come molte delle guerre palesemente impari, decisamente impari, in cui i contendenti non possono vincere o perdere, ma solo separarsi.
Lo si capiva a vista percorrendo le strade di provincia, attraversando la campagna, il Vietnam vero, la gente vera, per cui le grandi potenze mondiali, la capitalista e la comunista, erano scese in guerra: dei contadini stracciati che stavano in riva agli stagni delle risaie a pescar rane o tinche per sfamarsi, vicino a capanne che per tutta ricchezza avevano qualche vaso di coccio.
Una cosa era chiara: non era per loro che si combatteva, nessuna guerra li avrebbe tolti dalla loro millenaria povertà e sudditanza. Le due guerre si ripetono, sono vinte non per la superiorità delle armi, ma per stanchezza, per la incompatibile diversità dei contendenti.
Gli americani, allora come oggi, rinnovavano le tecniche e i vietcong, come gli iracheni, rispondevano con la resistenza di chi deve comunque sopravvivere. Gli americani inventavano i villaggi fortificati, il disboscamento con il napalm, i bombardamenti di precisione da 5 mila metri di altezza. E i vietnamiti, che dovevano sopravvivere, trovavano un modo di opporsi con il terrorismo spietato per cui chiunque accettasse nei villaggi una minima funzione pubblica, sindaco, maestro di scuola, messo comunale, impiegato alle poste, veniva ucciso. Oppure si rifugiavano nelle città sotterranee o fabbricavano le trappole umane, con i pali acuminati perché c'erano, perché quel paese era il loro, da lì non se ne sarebbero andati, non potevano andarsene ed è per questo che penso che la fine delle due guerre asiatiche, quella irachena e quella afgana, sarà come quella del Vietnam. Perché chi non può muoversi, alla fine resta e chi può andarsene, alla fine se ne va.
Si dice che la guerra asiatica sia una guerra sbagliata. Lo è per la ragione di fondo che si è detta: la incompatibilità assoluta fra occupanti e occupati. Già nel Vietnam, camminando per Saigon, la capitale decomposta fra il dolore e l'indifferenza, fra la morte e i commerci, fra la corruzione dilagante e la modernità, veniva di pensare all'assurda pretesa dei contendenti di poter cambiare con una montagna di morti quella differenza, la realtà di un paese poverissimo destinato a restar povero per altri secoli.
Americani, cinesi, vietcong: tutti presi dall'idea, che era stata dei nazisti, di rigenerare il mondo seminandolo di morti. Guerre simili anche nell'impossibilità di raccontarle. A vederle dal vero queste guerre sono sempre molto peggio o molto meglio di come le avevi immaginate perché a dirigerle è il caso, dove c'è il meglio quasi non ti accorgi che ci sia, dove c'è il peggio è raro che tu possa raccontarlo.
Nel Vietnam, come ora in Iraq, l'America aveva mandato un esercito che aveva poca voglia di combattere la guerra: i cittadini meno legati alla patria americana, gli americani di colore, soldati per necessità. E sapendo che quell'esercito non aveva voglia di combattere, pensava di sopperire con l'abbondanza dei mezzi. Vale a dire non la voglia di vincere, ma di durare sino all'arrivo di altre truppe, in una guerra senza fine.
Su per giù, in Iraq le cose sono già a questo punto: ai grandi trinceramenti e all'uso difensivo dell'aviazione. Ed eguale è il pregiudizio, il fanatismo politico, l'immaginazione di parte che segue queste guerre nel resto del mondo. A un ritorno dal Vietnam accettai incautamente di partecipare a un dibattito alla Statale di Milano. Nessuno dei partecipanti era mai stato nel Vietnam, nessuno aveva la più pallida idea di cosa fosse quella guerra, ma le ovazioni andarono al Franco Fortini che ne faceva un poema epico.

Giorgio Bocca

Giorgio Bocca (Cuneo, 1920 - Milano, 2011) è stato tra i giornalisti italiani più noti e importanti. Ha ricevuto il premio Ilaria Alpi alla carriera nel 2008. Feltrinelli ha pubblicato …

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