Paolo Rumiz: La rotta per Lepanto. La madre delle battaglie

07 Ottobre 2004
Alba arancione dietro alle montagne. È la fine di agosto, ma per noi è l'alba del 7 ottobre. Domenica. Cielo pulito, prima bella giornata dopo giorni di freddo. Puntiamo su Itaca per ritrovare la flotta cristiana che ha sostato a Cefalonia. È già in navigazione, si è mossa di notte, ci sbarra quasi la strada. Forma una processione interminabile, punta a Nordest sulla terraferma tra l'isola di Kastos e le Curzolari. Le galere vanno solo a remi, hanno il vento contro. Si mettono sottocosta per prendere il nemico di sorpresa all'uscita del golfo di Patrasso. Anche i turchi sono da tempo in mare. Sanno tutto dell'Armata avversaria. Qualche notte prima, una loro galea-spia dipinta di nero si è infilata, beffarda, nel porto di Messina per contare le navi della coalizione. Sono ancora invisibili, stanno uscendo dal golfo di Corinto, hanno in poppa un vento gagliardo che scende dal Parnaso. Galere costantinopolitane, barbaresche, siriane, greche di Negroponte, anatoliche, bulgare, di Rodi, Gallipoli, Alessandria d'Egitto. Il grosso dei rematori è cristiano. Prigionieri, messi ai ferri e destinati ad affondare con le navi. Obbligati quindi a combattere per vivere. Dopo Leucade l'ombrosità balcanica si estingue, inizia un pélago abbacinante, desertico, il caldo diventa libico, le cicale assordanti, le isole più montuose. Hanno profili inquieti, da terremoti. L'onda lunga e regolare delle alture dalmate pare lontana come la Luna. E ogni pomeriggio, sulle isole, si sveglia un maestrale teso, quasi impossibile da risalire, che ti porterebbe in un attimo fino in fondo al Peloponneso. Guardo sulla carta, l'Africa è vicinissima. Tre giorni di navigazione col vento buono. Sono le nove. La battaglia, dov'è la battaglia? Difficile trovare il punto. Tutto complotta a non fartelo trovare. Il mare inghiotte ogni segno. Il vento scende dalle montagne e stravira la vela. Il nome della scontro non c'entra nulla col posto dove avvenne. Lepanto è molte miglia più a Oriente e, come se non bastasse, ha cambiato nome, oggi si chiama Nafpaktos. Il posto che cerchiamo sono le isole Curzolari, Ehinades in greco, "tre scogli non molto grandi, lontani da terra un miglio circa", chiamate così "per la copia grande de' ricci, animali spinosi". Eccole. Le isole, come relitti alla deriva, con sopra vortici di gabbiani. Ma anche lì non ti orienti, dal 1571 è cambiato tutto, gli scogli si sono insabbiati, a terraferma la linea di costa è avanzata di centinaia di metri per i detriti del fiume Achelòos. Lepanto: mito, non-luogo, fatamorgana. Ma forse è giusto così. Inutile fare la trigonometria della storia. E poi non c'è più tempo, il tempo è scaduto. Le due muraglie di vele sono lì di fronte, i nemici si contemplano, sul mare è sceso un tremendo silenzio. Ore dieci del mattino. Tutti si inginocchiano e pregano, l'ammiraglia spiega gli stendardi. Sulle navi veneziane viene ammainato il Leone col libro aperto e issato quello col libro chiuso, simbolo di scontro. Ai galeotti viene chiusa la bocca con un bavaglio, non devono urlare di paura. In battaglia si devono sentire solo i comandi degli ufficiali. Parla Don Juan: "Senores, ya no es hora de deliberar, sino de combatir". Le due ammiraglie si salutano con un colpo di cannone, e solo allora per la baia si leva un clamore immenso. Trombe, tamburi, urla, insulti, pifferi, nacchere. Una baraonda rituale che serve a impaurire e a sfogare la paura. Le sei galeazze veneziane piene di cannoni sono rimorchiate in prima linea. Giganti lentissimi, ma isole di fuoco. La flotta turca avanza, è a un miglio e mezzo, ma non ha più il vento in favore, deve muoversi di soli remi. Alle undici passate, le galeazze aprono il fuoco, colgono di sorpresa gli ottomani, seminano distruzione e morte. "E tanto maggiore fu l'esterminio e il dissipamento dell'armata turchesca, quanto dovendo l'ordinanza loro trapassare quelle sei galeazze per venire a investire l'armata christiana, ricevevano maggior danno per il vento contrario". Quando le galere si avvicinano, decine di migliaia di frecce e il fumo delle artiglierie oscurano il sole. Siamo agli arrembaggi, come ad Azio, a Salamina. I remi si incastrano tra loro, le armate "sì spaventevoli" si scontrano: "Gli elmi e i luminosi corsaletti, gli scudi d'acciaio come specchi, le altre armi lucenti abbagliano gli occhi dei nemici". Pauroso il fragore: trombe, cannonate, archibugi, tamburi. "Grida, rumore, strepito horribile, l'aere oscuro per il gran fumo dei fuochi artificiati". Ormai è il corpo a corpo. "Turchi e christiani combattendo insieme ristretti a battaglia dell'arme curte, dalla quale pochi restarono in vita, e infinita era la mortalità ch'usciva da i spadoni, scimitarre, mazze di ferro, cortele, manarini, spade, frecce, archibugi e fuochi artificiati, oltra quelli, che per diversi accidenti spenti, ritirandosi e da lor gettandosi, s'affogavano in mare, il qual era spesso e rosso di sangue". Gli ammiragli di Venezia combattono in prima linea, il vecchio Venier lavora di balestra, a capo scoperto, dalla prua della sua galera, Agostino Barbarigo muore trafitto da una freccia in un occhio dopo aver combattuto, diranno ammirati gli spagnoli, "tan valorosamente, que de ello abrà con razon perpetua memoria". Le due ammiraglie si avvistano, si cercano in quel labirinto di navi, remi, rottami, vogliono la disfida diretta. Ali Pashà promette la libertà ai suoi galeotti in caso di vittoria, Don Juan galvanizza la ciurma esibendosi sul ponte della Galera Real in una danza erotica, una "Gagliarda", assieme a due gentiluomini. I quali, "mossi da giovanile ardore, iniziarono a ballare sulla piattaforma dei cannoni al suono dei pifferi" per liberare gli uomini dalle paure. E i greci che fanno? Stanno a guardare lo spettacolo dalle rive? No, i greci combattono, molti sulle navi cristiane, ma in maggioranza su quelle turche. Non è solo per obbedienza. Si sentono bizantini e per loro il Sultano non è che l'erede di Bisanzio, la Roma d'Oriente. La rivalità greco-turca non è ancora cominciata. Nel sedicesimo secolo la vecchia ruggine verso la chiesa di Roma prevale ancora sulla paura dell'Islam. Nel secolo dei nazionalismi tutto questo sarà rimosso. I greci faranno come i serbi, giureranno di non aver mai servito - come invece fecero alla grande - nelle truppe ottomane. Ma ecco, il vessillo cristiano sale sul pennone più alto dell'ammiraglia turca, la galera di Alì Pashà è presa. È il segnale che galvanizza la Santa Alleanza. Molto, a quel punto, si decide ai banchi dei rematori. I galeotti sulle navi cristiane, all'idea della libertà e del bottino, raddoppiano gli sforzi. Quelli sulle truppe ottomane, che sono in gran parte schiavi cristiani, si ammutinano. "Spezzate, schiavate e tagliate le catene con l'armi de' propri turchi tenevano nelle mani e si vendicavano di tante crudeltà fateli". "Si vedea per le grande cortelate / sol busti, e gambe, brazze, e teste tagliate / e molti eran smembrati dalle crude canonate". Nessuna pietà, il mare è coperto di feriti che i cristiani finiscono a colpi di balestra dalle murate delle galere. Nessuno trattiene più la furia dei vincitori, molti turchi sono massacrati dopo essersi arresi, il che convince gli altri a morire combattendo. Una mattanza. Per otto miglia, il mare "è coperto non tanto di arbori, antenne, remi od altra tale cosa spezzata, quanto di una quantità innumerabile di corpi che 'l rendeano tutto sanguinoso". Sono le tre del pomeriggio, tutto si è consumato a velocità impressionante. Quasi quarantamila morti in poco più di quattro ore. Si leva il vento di Maestro. È finita.

Paolo Rumiz

Paolo Rumiz, triestino, è scrittore e viaggiatore. Con Feltrinelli ha pubblicato La secessione leggera (2001), Tre uomini in bicicletta (con Francesco Altan; 2002), È Oriente (2003), La leggenda dei monti …