Gabriele Romagnoli: Il miraggio canaglia di un’età dell’oro che non c’è mai stata

05 Gennaio 2005
Come è noto siamo tutti in viaggio e non abbiamo la più vaga idea del percorso. Non bastasse, quando guardiamo nello specchietto retrovisore veniamo ingannati. Parafrasando l’avvertimento in sovrimpressione sulle auto a noleggio: ogni cosa alle nostre spalle ci appare più grande e fulgida di quanto sia realmente (stata). Dovrebbero mettere dei cartelli stradali in forma di triangolo, quelli che indicano un pericolo, sul tragitto della vita: "Attenzione, nostalgia". Sterzate o verrete schiacciati, dirottati, beffati. Finirete per attribuire un valore assurdo a qualcosa che non ne possiede alcuno. Quella che state inseguendo non è una meta, ma una chimera. Eppure lo fate. Sognate di possedere la maglia indossata da Rivera in Italia-Germania 4 a 3, la prima chitarra spezzata da Jimi Hendrix durante un concerto (che non ripararete e quindi non suonerete mai giacchè il danno è la sua essenza), il vestito bianco indossato da Marilyn su una grata della metropolitana di New York alle 2 e 40 di una notte del 1954 illuminata a giorno dai fari per le riprese. Perché ci cascate? è un effetto ottico, vi grida la vostra mente, ma avete già messo mano al portafoglio e se avete abbastanza soldi vi comprate una "madeleine" scaduta (il primo numero, in edizione originale, di Tex Willer, la sputacchiera di Freddie Mercury, il buco lasciato da una pallottola sparata da Che Guevara in persona a Santa Clara). Se non ve lo potete permettere rosicherete come se la chiave del paradiso vi fosse passata sotto il naso dondolando e poi via, nelle mani di un altro. è un universale svarione soggettivo e oggettivo. Soggettivo perché ogni generazione nel miraggio della nostalgia rivede come oasi gli stagni in cui ha nuotato. Nel testo dell’indimenticata filastrocca musicale Sunscreen è contenuta questa perla di saggezza: "Accetta verità indiscutibili: i prezzi saliranno, i politici ruberanno e tu diventerai vecchio. E quando lo sarai ti convincerai che quando eri giovane i prezzi erano ragionevoli e i politici onesti". Ogni generazione sposta la lancetta in cui il tempo perduto era felice, i miti degni di essere idolatrati, i cocci di vetro che lastricano l’attuale percorso diamanti purissimi. Mi trasferii al Cairo e, parlando con qualcuno del posto, per la prima volta sottolineai il degrado della città. "Avresti dovuto vederla vent’anni fa, allora sì", ribattè, nostalgico. A un secondo interlocutore dissi poi: "Questa città doveva essere stupenda vent’anni fa". Replicò: "Era già una schifezza, dovevi vederla quarant’anni fa, allora sì". E la frontiera continuò a spostarsi per evitare la verità: nessun uomo vivente ha memoria di una Cairo all’altezza della sua leggenda, non importa quante pietre possiamo comprarci per attestare il contrario. Lo splendore è qualcosa che alle cose attribuiamo con un’operazione di restauro dettata dalla disperazione. Vogliamo a tutti i costi poter dire anche noi: formidabili quegli anni. Se non abbiamo fatto il '68, almeno il '77, o c’eravamo nell’89. Abbiamo il primo numero del Manifesto, con la testata in rosso, un microfono di Radio Alice, un ciottolo del Muro di Berlino comprato su Internet (probabilmente appartenuto alla cantina di un qualunque carpentiere teutone). Continuiamo a rimpiangere il passato in ogni aspetto: politica, musica, sport. è probabile che quest’ultimo sia stato davvero migliore, ma come disse una volta un filosofo di nome Sandro Mazzola: "Quelli che sono giovani adesso hanno conosciuto solo questo tipo di calcio, questo amano e tra vent’anni questo rimpiangeranno". Ma lo svarione universale è anche oggettivo. Ammettiamolo: i cimeli dell’età dell’oro valgono zero perché l’età dell’oro non è mai esistita. A questo non possiamo rassegnarci: aver attraversato il nostro tempo senza mai imbatterci in una stagione miracolosa o, almeno, in un momento magico. Con un’opera di revisionismo non meno perversa di quella di certi storici prendiamo dal cassetto ricordi ammaccati di quello che fu un anno o un giorno che ne vale tanti altri, gli passiamo sopra una mano di vernice giallastra e sospiriamo. Poi usciamo a comprarci quel che, nella nostra mente e lì soltanto, testimonia che non abbiamo sognato invano (o restiamo a invidiare chi può farlo). Capita a tutti, nessuno escluso. Dopo aver steso questa critica semiseria alla nostalgia come stato (d’animo) canaglia, non resta che confessare l’insana tentazione provata anni fa davanti a un’asta di cimeli. Se avessi posseduto le migliaia di dollari necessarie avrei partecipato per assicurarmi quell’oggetto. Che cos’era? Un accendino. E non fumo. Recava un’iscrizione, a ricordo della "favolosa estate del '56". E non ero nemmeno nato. L’aveva regalato John Fitzgerald Kennedy a Jacqueline Bouvier. Il punto è il seguente: il primo ricordo che ho dell’esistenza è l’immagine dell’attentato di Dallas, lei in tailleur rosa stesa sul cofano nel vano tentativo di rappattumare i pezzi del cervello esploso di lui. Ossessionato come un americano qualunque da quell’immagine, ho passato l’infanzia e l’adolescenza leggendo qualsiasi testo riguardasse quelle due persone. E ho appreso prima la fiaba, poi il suo smascheramento. Babbo Natale non esiste, JFK tradiva la moglie con ogni segretaria e per non più di 90 secondi, Jackie tradiva il marito con un suo collaboratore, le loro vite sono state il tradimento delle idee per cui sono stati amati, quella morte, per come è stata raccontata ufficialmente, è stata il tradimento di ogni verità. Non c’è stata età dell’oro vissuta in diretta: tutto, fin dalla prima immagine, comincia con un inganno a cui se ne sovrappone un altro. Eppure deve essere esistito un tempo in cui le cose erano diverse, l’amore puro, l’eroe integro, la dama radiosa: una favolosa estate del '56. Allora, mentre le monetine cadevano nel juke box tintinnando e le vele sbatacchiavano nel vento di Cape Cod una fiamma si accendeva e così miracolosamente restava e resterà, se noi saremo devote vestali di quell’istante. Alla fine, la nostalgia non è che un surrogato o una forma rozza e primitiva di fede: viene a dirci che un paradiso è esistito, l’abbiamo perduto ma possiamo riconquistarlo credendo. Che i prezzi siano mai stati ragionevoli, i politici onesti, questo viaggio senza rotta un provvidenziale tracciato.

Gabriele Romagnoli

Gabriele Romagnoli (Bologna, 1960) Giornalista professionista, a lungo inviato per “La Stampa”, direttore di “GQ” e Raisport è ora editorialista a “la Repubblica”. Narratore e saggista, il suo ultimo libro è …