Bob Dylan: "Ho scritto l´autobiografia per smentire il mio mito"

07 Ottobre 2004
Era l´ultimo da cui aspettarsi un´autobiografia. Ma alla fine è successo. È uscita ieri in America col titolo di Chronicles, vol.1, e la firma non lascia dubbi. A raccontarsi è proprio Bob Dylan, massima icona vivente della cultura musicale americana, ma allo stesso tempo il più sfuggente, obliquo, allusivo degli artisti, un poeta in perenne ricerca di se stesso e in permanente conflitto col mito creato intorno alle sue canzoni.
Che un´autobiografia fosse l´ultima cosa che ci si poteva aspettare da uno che ha vigilato sulla sua privacy come un feroce mastino, se ne rende conto lo stesso Dylan, anche perché, come ha dichiarato al settimanale "Newsweek", "di solito scrivo canzoni e le canzoni puoi riempirle di simbolismi e metafore. Quando scrivi un libro come questo devi raccontare la verità e non può esser fraintesa". Si capisce quindi che l´abbia vissuta come una sfida più sfibrante e difficile di quanto possa essere stato scrivere versi.
Fino ad ora più generazioni di fan, critici, esegeti, si erano esercitati a capire l´uomo Dylan dalle sue canzoni, dalle rare interviste, generalmente elusive, senza mai una conferma o una smentita dall´interessato, anche di fronte alle più spericolate interpretazioni. Il poco che era trapelato aveva assunto i contorni dell´ostinazione paranoica. Era talmente irritato dalla pressione che lo voleva a tutti costi come il portavoce di una generazione in rivolta ("una volta Joan Baez" ricorda nel libro, "ha inciso un pezzo di protesta su di me, sfidandomi ad affrontare le cose, a uscire e prendermi la responsabilità di guidare le masse, di guidare la crociata. La canzone mi chiamava dalla radio come fosse un annuncio di pubblico servizio") da aver recentemente negato che Master of wars fosse una canzone pacifista. Assurdo, ma abbastanza esplicativo del suo rapporto con gli stereotipi che lo hanno ingabbiato.
Ma perché proprio ora scrivere la verità? Opportunamente stimolato dall´editore, Dylan ha pensato che a 63 anni fosse arrivato il momento di dire la sua, si è chiuso per mesi in casa con una vecchia Remington, scrivendo a stampatello perché fosse più chiaro da riscrivere per il copista. La verità, certamente, ma alla sua maniera. Al famoso e misterioso incidente di moto che nel ´66 lo tenne a lungo fuori dalle scene dedica appena una riga: "Ho avuto un incidente in motocicletta e sono rimasto ferito, ma sono guarito. La verità è che volevo tirarmi fuori dalla concorrenza". Punto. E non ci sono particolari intimi sul matrimonio e su altri fatti privati. Nulla per soddisfare quella morbosa attenzione dei media che spinse un fanatico ricercatore a controllare tutti i giorni la sua spazzatura per scoprire quali tremendi segreti nascondesse la vita privata di Dylan. Ci sono in compenso lunghe descrizioni del suo difficilissimo rapporto con la celebrità: "L´attore Tony Curtis mi ha detto una volta che la fama è un´occupazione in se stessa, è una cosa a parte, e non poteva avere più ragione".
Dylan racconta diffusamente, con dovizia di particolari e toni quasi apocalittici, l´incubo che iniziò quando le sue canzoni cominciarono a essere intese come inni generazionali, quando a tutti i costi ci si ostinava a ritenerlo il pifferaio della rivolta giovanile: "Dopo un poco impari che la privacy è qualcosa che puoi vendere, ma che non puoi ricomprare. Woodstock (la sua residenza di campagna, n.d.r.) era diventato un incubo. Mappe stradali per arrivarci erano state stampate in tutti gli Stati ad uso e consumo di bande di emarginati e sconvolti. Gente bizzarra arrivava dalla California in pellegrinaggio. C´era perfino gente che saliva sul tetto. Un mio amico folksinger mi regalò una Colt, ma lo sceriffo mi diffidò dall´usarla. Mi disse che se qualcuno fosse rimato ferito mi avrebbe messo in galera. E così dovevo sopportare che la gente invadesse la mia casa e la mia proprietà. Ma quello che mi interessava più al mondo in quel momento era difendere mia moglie e i miei figli".
E alla fine si descrive in un modo che nessun fan avrebbe mai accettato, e forse ancora oggi farebbe fatica a credere: "Non so cosa chiunque altro stesse fantasticando su questo, ma quello su cui fantasticavo io era un´esistenza tranquilla, con un lavoro dalle nove alle cinque, una casetta con un cancello bianco e le rose in giardino".
Dire che da questo emerge un Dylan insospettabile è dire poco. Anche se qualche indizio c´era. Gli stessi dischi degli anni Sessanta, o meglio alcuni dei suoi più famosi cambiamenti, su cui si è detto e scritto di tutto, ora finalmente acquistano nuova luce grazie alle parole di Dylan. Si viene a scoprire che dischi come Nashville skyline e soprattutto Selfportrait (ritenuto universalmente il suo disco più bizzarro e inaspettato) furono realizzati anche e soprattutto per sfuggire alla dorata ma insopportabile prigione del mito: "Andai a Gerusalemme e fui fotografato davanti al muro del pianto con lo zucchetto in testa. L´immagine fu immediatamente trasmessa in tutto il mondo e in un attimo fui trasformato in un sionista. Questo ha aiutato un poco. Al ritorno ho subito inciso un disco che sembrò essere un disco country and western. La stampa musicale non sapeva cosa farne. Ho anche usato una voce diversa dal solito. La gente scuoteva la testa".
Viene fuori un Dylan determinato a spiazzare, cambiare, sovvertire l´immagine che lui stesso aveva creato grazie a una sequenza irripetibile di canzoni-capolavoro scritte e registrate nel giro di soli tre o quattro anni. Ma sappiamo che il mito è duro a morire e per quanto abbia detto o fatto, ancora oggi per molti Dylan è quello degli anni Sessanta, l´autore di Blowin´ in the wind e The times they are-a changin.
Tutto sembra meno che una convenzionale autobiografia, e lo stesso titolo dell´opera, Chronicles, offre una lettura diversa. Lui stesso dichiara di non sapere cosa voglia dire esattamente la parola "autobiografia". Il libro sembra piuttosto un autoritratto narrato, una ricostruzione veritiera di un personaggio consapevole di essere stato costantemente frainteso. Mancano decine di episodi che avrebbero completato il racconto della sua vita e soddisfatto la curiosità degli storici. Dylan ad esempio non dice nulla di uno degli episodi più celebri della storia del rock, ovvero la leggenda secondo la quale sarebbe stato lui a offrire a John Lennon il suo primo spinello di marijuana. Ma accanto al titolo c´è un "vol.1" che prelude a un seguito, e non è detta l´ultima parola.

Chronicles. Vol. I di Bob Dylan

Siamo nel 1961, all'epoca in cui Dylan giunge a Manhattan, ed è attraverso i suoi occhi e la sua mente aperta che possiamo gettare uno sguardo sul Greenwich Village. La New York di Dylan è la magica città delle possibilità: feste piene di fumo e che durano la notte intera, straordinarie scoperte le…