Giorgio Bocca: Anni Settanta.Troppi ricconi rivoluzionari

27 Maggio 2005
Ho un ricordo sgradevole degli anni Settanta, frequentati da uomini velleitari e fideisti, pronti a credere in tutte le rivoluzioni esotiche, utopistiche, spesso e volentieri cretine, nei mille Vietnam come negli sconosciuti Tupamaros. Con repressori altrettanto ambigui e inventati: le polizie che bastonavano i figli della buona borghesia la quale fingeva di credere che fossero «fascisti» e non dei poveri diavoli in cerca di un impiego. Non mi piaceva la falsità dei ruoli e delle retoriche, sentire i figli del mio padrone di casa con rendite miliardarie invocare la rivoluzione. E mi dava grande fastidio andare in cerca di parentele, di eredità fra questi sconclusionati moti giovanili e la guerra partigiana da cui eravamo appena usciti e che era la vera sconfitta di quel confuso trapasso.
Sì, i veri sconfitti erano i partigiani di stampo azionista o giellista, che avevano fatto l´antifascismo e la resistenza e proposto al paese un modello liberal-socialista, pragmatico, senza il sol dell´avvenire e altri sogni ottocenteschi, senza città futura, dittatura del proletariato, eguaglianze salariali e altre chimere e si ritrovavano in mezzo a figli irriconoscibili di nuovo in cerca di paradisi in terra e di fedi consolatrici. Alcuni dei dirigenti di Giustizia e libertà come Franco Venturi e Aldo Garosci, offesi a morte da questi eredi, si ritirarono negli studi come in una trappa, altri come Norberto Bobbio rimasero dentro la tempesta e si affidarono al dovere socratico della conoscenza: ‟Non chiedetemi di rispondere, diceva, agli interrogativi assurdi di questo tempo, non ho nessuna risposta da dare. La verità è che ho molti dubbi sul mondo, sulla vita, sul destino dell´uomo, su me stesso”.
La storia di quegli anni nella loro confusione di piazza era abbastanza chiara, duramente chiara. Il mondo era stato spartito a Yalta fra due potenze gli Stati Uniti e la Russia che parevano antitetiche ma che erano i pilastri conservatori del nuovo ordine. I movimenti e i terrorismi per tutti gli anni Settanta avevano fatto dell´Italia un campo di battaglia, ma di una battaglia finta. I padroni, la borghesia ricca non avevano paura della rivoluzione dei figli. Avevano l´aria di considerarla una vacanza, da farci un gran baccano ma senza disturbare i buoni affari. Di fatto i cortei giovanili, i loro scontri, i loro canti rivoluzionari non disturbavano le banche, la Borsa, gli uffici delle società per azioni e salvo qualche chiassata alla prima della Scala non disturbavano le professioni borghesi e i loro commerci. Si creavano così delle situazioni francamente imbarazzanti e ridicole. Un giorno Scalfari ed io partecipammo a una manifestazione contro la repressione circondati da giovanotti del movimento studentesco che urlavano all´indirizzo delle persone alle finestre di via Manzoni ‟fascisti borghesi ancora pochi mesi”. E guardando in su riconoscevamo i vecchi amici della borghesia antifascista, molto borghesi per nulla fascisti.
In altra occasione ero a Bari per presentare un mio libro e l´editore Laterza festeggiava un suo famoso autore il filosofo Herbert Marcuse, comunista emigrato in California che aveva appena scritto un saggio su L´uomo a una dimensione schiacciato dal consumismo. Gli chiesero di parlare e lui fece il suo bel discorsetto sulle cose serie e anche le baggianate care ai filosofi progressisti ricevendo un sacco di applausi. Poi lui sua moglie e noi suoi ammiratori fummo come isolati in un salottino mentre la borghesia barese con in testa prefetto sindaco e questore e il commendatore Di Cagnio padrone di mezza Bari, Grand Hotel, terreni, autorimesse, con cognato direttore della Cassa per il Mezzogiorno parlavano fitto e intenso dei loro affari, attenti e un po´ torvi come quando i baresi parlano di soldi. La commedia cultural-progressista era finita. Noi restammo con il vecchio Herbert che ci confidava: ‟Voi italiani non vi capisco, a Torino mi ha invitato mister Fiat, a Milano mister Pirelli, qui prefetti e generali. Ma davvero ai ricchi italiani i comunisti piacciono tanto?”.
L´impressione che ho avuto degli anni Settanta è che i poteri costituiti, la borghesia del denaro e il comunismo dei sindacati si fossero chiusi nelle loro piazzeforti per continuare nel comando e per vedere come quella buriana sarebbe andata a finire. E per farlo con raziocinio e comodo si erano spartiti i posti di comando, le facoltà universitarie scientifiche ai padroni del vapore, quelle umanistiche ai rivoluzionari. A Padova il professor Negri stava a Lettere dove la mensa veniva aperta gratuitamente ai rivoluzionari terroristi di passaggio. Intanto nella Fiat e nelle altre grandi industrie nonostante la presenza delle Br, osservate per conto del Pci da Giuliano Ferrara, avveniva la rivoluzione tecnologica dell´automazione, anche le differenze formali erano inventate, snobistiche. I rivoluzionari ricchi si vestivano da poveracci, mentre i fascisti avevano scarpe da elegantoni a punta stretta e occhiali Ray-ban. I fascisti riconoscevano i rossi dalle barbe incolte, dagli eskimo, dai blue jeans e i rivoluzionari fascisti dalle camicie a collo alto alla Gianni Agnelli. Ci scapparono pure alcuni morti ammazzati da entrambe le parti, ma il contrasto fu strettamente politico. Anche se a cose fatte incomprensibile.

Giorgio Bocca

Giorgio Bocca (Cuneo, 1920 - Milano, 2011) è stato tra i giornalisti italiani più noti e importanti. Ha ricevuto il premio Ilaria Alpi alla carriera nel 2008. Feltrinelli ha pubblicato …