Stefano Rodotà: Se la licenza d´uccidere è un pericolo per tutti

26 Luglio 2005
Quali devono essere le "regole d´ingaggio" in situazioni d´emergenza? Questa espressione ci è divenuta familiare nei giorni drammatici dell´uccisione di Nicola Calipari e torna d´attualità dopo la morte a Londra di un giovane brasiliano, colpito dalla polizia e risultato poi del tutto estraneo al terrorismo. Quando è legittimo sparare? Si può rilasciare una "licenza di uccidere"?
Siamo così di fronte al punto estremo delle discussioni rilanciate dagli ultimi attentati. Non si tratta soltanto di chiedersi in quale misura la sicurezza possa giustificare limitazioni della libertà personale, della privacy, della libertà di circolazione o di comunicazione. È in questione il bene supremo, il rispetto della vita.
Il caso Calipari dev´essere ricordato perché, allora, l´attenzione si concentrò proprio sulle regole alle quali dovevano attenersi i soldati americani, sulla situazione ambientale e psicologica in cui si trovavano, sulla proporzionalità della loro reazione. E una giustificazione venne cercata proprio nel fatto che i militari americani si trovavano ad operare in una situazione di perenne minaccia, di difficoltà nel distinguere comportamenti normali e comportamenti sospetti di terrorismo.
Ma, allora come oggi, una conclusione del genere non può essere considerata appagante. Anche se fosse tutto vero quel che si dice per assolvere soldati americani e poliziotti londinesi, la gravità della situazione impone di non accettare l´accaduto come inevitabile, di considerare l´eventualità del ripetersi di fatti del genere e, quindi, di ragionare sui modi migliori per ridurre un rischio così incombente. Proprio perché viviamo in tempi tanto calamitosi, nessuno può girare la testa dall´altra parte, e assolversi pensando o dicendo che «ormai così va il mondo».
La questione delle regole esiste. Ma sappiamo che il vero problema è sempre quello del clima, del contesto in cui una regola deve poi essere applicata. Ecco perché, soprattutto quando ci si trova in situazioni estreme, bisogna accompagnare le norme con una cultura che possa minimizzarne gli effetti negativi.
Se si alzano i toni, se si invitano tutti, poliziotti e cittadini, a tenere sempre il dito sul grilletto, a sparare a vista al minimo sospetto, è fatale la nascita di un clima di allarme nel quale il verificarsi di "incidenti" diventa inevitabile. Se, invece, si mantiene fermo il criterio dell´assoluta eccezionalità di alcune forme di intervento, se si ribadiscono con precisione le modalità d´impiego delle armi, è probabile una riduzione al minimo dei possibili danni.
Un passo indietro, verso gli anni Settanta, ai tempi della legge Reale che introdusse norme che allargavano i casi di uso legittimo delle armi da parte delle forze di polizia. Dopo l´entrata in vigore di quella legge, si fu costretti a tenere una macabra contabilità, registrando i morti ammazzati a posti di blocco senza che, poi, fosse possibile fornire adeguate giustificazioni delle sparatorie. La legge non aveva solo attribuito un potere. Aveva legittimato una cultura della violenza che non produceva sicurezza, ma rischi per i cittadini, come accadde ad una delle tante vittime, un giovane medico romano, ucciso di notte su un lungotevere per non essersi fermato ad un alt di poliziotti in borghese che ben poteva aver scambiato per rapinatori.
Ecco dov´è il punto vero. Non dobbiamo pensare a regole per una partita a due, tra polizia e terroristi. Vi è un terzo soggetto, il cittadino, la cui sicurezza è invocata per introdurre norme d´emergenza che, poi, possono produrre pericoli proprio per chi dovrebbero difendere. Viviamo già in una situazione che sta trasformando tutti i cittadini in sospetti, grazie a controlli capillari e di massa che vanno dalla videosorveglianza alla lunghissima conservazione dei dati riguardanti le telefonate e la posta elettronica. Dobbiamo evitare una ulteriore deriva, che potrebbe portare alla trasformazione del cittadino in bersaglio.
Torniamo alle regole d´ingaggio. Esistono già norme precise sull´uso legittimo delle armi che consentono alle forze di polizia di fronteggiare anche la nuova situazione creata dal terrorismo. Generalizziamo, se mai, informazioni ai cittadini sui comportamenti da tenere, come già si fa per i bagagli in stazioni ed aeroporti. Lasciamo l´invocazione della licenza d´uccidere a chi non spinge l´orizzonte della propria cultura al di là dei titoli dei film di James Bond. Riflettiamo piuttosto sui guasti culturali e sociali che possono essere prodotti dalle nuove norme sulla legittima difesa, che privatizzano pericolosamente l´uso della forza e, così facendo, aumentano il rischio di conflitti.
Poiché, poi, si è tanto parlato, a proposito e sproposito, di cultura della vita come frontiera invalicabile, teniamola a mente anche in questa situazione. Proprio il terrorismo ci mette di fronte a una radicale negazione della vita, che annienta attentatori e vittime. Guai se, in un impeto di reazione, ci lasciassimo coinvolgere in questa barbarie.

Stefano Rodotà

Stefano Rodotà (1933-2017) è stato professore emerito di Diritto civile all’Università di Roma “La Sapienza”. Ha insegnato in molte università straniere ed è stato parlamentare in Italia e in Europa. …