Vittorio Zucconi: I segreti di J.F.Kennedy

27 Ottobre 2005
Nel tardo pomeriggio del 29 maggio 1917, in una stanza della casa di famiglia nel quartiere di Brookline a Boston, due medici, una levatrice e un’infermiera fecero nascere un bambino destinato a essere ucciso e a non morire mai.
Lo avrebbero ammazzato quarantasei anni dopo, quel bambino battezzato coi nomi del nonno materno, John Fitzgerald, ma soltanto per la cronaca. Per la storia, per le generazioni che sarebbero venute più tardi, per i tremilanovecentotrenta autori che hanno scritto e continuano a scrivere libri su di lui, per i delusi dall’America che c’è, e che rimpiangono un’America che forse non c’è mai stata, il secondo genito di Rose e Joseph Kennedy avrebbe continuato a morire e rinascere per i decenni a venire. A essere sepolto e riesumato, spirito senza pace in vita e in morte, prodotto di una Vita Incompiuta, come vuole il titolo di questa ultima struggente biografia, e per questo destinata a non finire mai. A una vita incompiuta, come a una sinfonia, si può dare il finale che si vuole.
Proprio la incompiutezza della vita e della presidenza di John F. Kennedy è la calamita che dal 22 novembre 1963, attira la passione e la paranoia, l’ammirazione e l’ansia di noi che ingenuamente guardiamo alla storia umana come a un puzzle nel quale i pezzi dovrebbero ricomporsi in un quadro comprensibile. Se dunque si cercano un perché e un finale che diano finalmente pace e compiutezza alla vita di JFK, non sono libri onesti come questo scritto dallo storico Robert Dallek che vanno letti, perché le 800 pagine della sua eccezionale ricerca, la prima condotta avendo avuto dalla famiglia accesso anche alle cartelle cliniche del 35esimo presidente degli Stati Uniti, aggiungono altri pezzi al rompicapo e colonne al mito. La storia del bambino nato a Boston è la storia di una incantevole mediocrità che una pallottola ha trasformato per sempre in eccezionalità. E di una estrema fragilità fisica che le immagini di salubre spensieratezza, di vele sull’Oceano, di maglioni di lana irlandese elegamente ‟casual”, di donne stupende e di ciuffi arruffati dal vento di Hyannisport aveva trasformato in sogni di eterna giovinezza. Certamente, la famiglia del ‟paterfamilias” Joe che accumulò in interurbane il più alto conto telefonico privato nella storia della telefonia americana chiamando da Boston la sua amante, la diva Gloria Swanson, a Los Angeles, aveva saputo orchestrare l’immagine pubblica di se stessa come neppure i Bush avrebbero saputo fare. Ma neppure questo basta a spiegare il giudizio del pubblico americano, che puntualmente colloca Kennedy fra i ‟top” tre presidenti della propria storia mentre gli storici lo classificano tra i mediocri. Si è parlato molto della complicità maschilista del giornalismo anni 60, che aveva taciuto il suo essere un insaziabile e incosciente mandrillo, che tra le sue facilissime conquiste aveva addirittura la cognata di Ben Bradlee, destinato a dirigere il ‟Washington Post”.
Un Presidente che visse sempre ‟a un solo articolo di distanza” dallo scandalo devastante, sperando che quell’articolo non fosse mai scritto. Tutto ormai si sa del ‟priapismo” patologico di un uomo che proiettava l’immagine del padre affettuoso accanto alla elegante e algida Jackie e spiegava al fratello che ‟se non lo faccio almeno ogni tre giorni, mi viene il mal di testa”, una giustificazione che si sconsigliano i mariti di usare con le mogli. Eppure nel tempio del mito, sono tante le donne quanto gli uomini. Non si sapeva molto delle sue vere condizioni di salute e degli spaventosi intrugli che i suoi medici curanti gli iniettavano, a cominciare da un famoso dottore di Manhattan, conosciuto come ‟il dottor Misentobene”, poi radiato dall’ordine, che trattava i pazienti, come il medico di Hitler, Morell, ad anfetamina, il principio attivo dell’”ecstasy”. Ora, grazie a questo implacabile biografo, che insegna storia all’Università di Boston, sappiamo tutto anche di questo. Ma il mito cresce, perché nella sua cagionevolezza, nella sua paura del dolore e della morte esorcizzata da pillole e punture, riconosciamo la nostra. Scopriamo che fin da ragazzo questo John cagionevole e tormentato consumava giorni, settimane e mesi in ospedali, dai quali scriveva lettere ironiche e strazianti, raccontando di come i medici lo rivoltassero da sera e mattina, infilandogli tubi e clisteri, torturandolo, ingrassandolo e smagrendolo come una fisarmonica, senza mai arrivare a una diagnosi certa. Tormenti che non gli impedivano di inseguire con successo le infermiere, scriveva, forse fantasticando, forse no. L’elenco delle patologie che Dallek ha scoperto è quasi difficile da accettare. Colite spastica, morbo ciliaco (intolleranza al glutine, non diagnosticata), morbo di Addison alle ghiandole surrenali, osteoporosi (a 40 anni), prostatite cronica, artrite, ulcere duodenali, uretriti, discopatie della colonna vertebrale, sindrome di Crohn, due interventi chirurghici alla schiena entrambi con pessimi risultati, ipertensione arteriosa, iperlipidemia, in un quadro clinico che fa dubitare della sua attesa di longevità.
Più ancora delle varie patologie, è spaventosa la lista dei medicinali che ingoiava. Capsule di ormoni inserite in incisioni sotto cutanee prima che venissero sintetizzati in compresse per bocca, codeina, cortisone, causa probabile della precoce fragilità delle ossa, narcotici e sonniferi di vario tipo ogni notte, lassativi e astringenti alternativamente per tentare di regolare il suo sgangherato intestino, testosterone in abbondanza, forse una spiegazione del suo continuo appetito erotico, Ritalin per combattere l’iperattivismo, steroidi, Paregoric (morfina), Transentine (un barbiturico), pennicilina.
Un cocktail quotidiano che sconvolse il medico ufficiale della Casa Bianca, l’ammiraglio dottor Burke, che ordinò a tutti gli altri sanitari che bazzicavano il Presidente di non prescrivere neppure un’aspirina senza la sua controfirma o rischiare l’arresto e la denuncia. Che quest’uomo sballottato fra calmanti e stimolanti, perennemente chiuso nel bustino che indossava anche a Dallas e spiega lo scatto rigido del suo torso quando viene colpito dai proiettili di Oswald, fosse l’esatto opposto della immagine di giovanilismo salutista che egli proiettava non è vista come una delusione, ma come una conferma di tenerezza e di solidarietà. Lo renderà, dopo la lettura della storia della sua Vita Incompiuta, ancora più caro a chi lo rimpiange, perché se essere uccisi non comporta alcun eroismo, vivere mille giorni con il dito sul bottone della fine del mondo, mentre il servizio segreto già distribuisce ai pezzi grossi i ‟pass” per entrare nei rifugi antiatomici, fa tremare di paura. E di gratitudine.
Oggi sappiamo, o crediamo di sapere, tutto sui malanni dei politici. Ma se si fosse saputa, nel 1960, la verità su Kennedy, l’America lo avrebbe eletto? Ci sarebbe stato al suo posto un presidente sanissimo, sobrissimo, castissimo, ma capace di rispondere ‟no” ai generali che volevano invadere Cuba, ignorando sciaguratamente quello che ora sappiamo, che i reparti sovietici sull’isola avevano armi nucleari tattiche e il permesso di usarle per respingere l’invasione? C’era JFK, il bambino fragile e immortale, impasticcato, dolente, arrapato, ma capace di leggere qualche libro di storia e di ricordare la guerra che aveva vissuto. C’era, come lui stesso si descrisse e Dallek riporta, ‟un idealista senza illusioni”, anziché quegli illusionisti senza ideali che oggi infestano il potere.

Vittorio Zucconi

Vittorio Zucconi (1944-2019), giornalista e scrittore, è stato condirettore di repubblica.it e direttore di Radio Capital, dove ha condotto TG Zero. Dopo aver cominciato nel 1963 come cronista precario a …

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