Giorgio Bocca: La memoria del Paese virtuoso

28 Novembre 2005
Mio nonno Giovanni è nato al Passatore, una frazione contadina di Cuneo. Per arrivare nella città lui e mia nonna hanno girato l’Italia nei presidi militari dell’esercito regio, solo da vecchi sono riusciti ad avere una casa sull’altopiano nel capoluogo di provincia. Mia madre maestra e mio padre professore hanno fatto sacrifici perché mia sorella e io andassimo all’università e noi due abbiamo completato la fuga verso la metropoli, verso Torino e Milano. Mia sorella non ha avuto figli, io una figlia che un bel giorno si è stancata di Milano e delle sfilate di moda e se ne è andata a San Fereolo, nelle Langhe di Dogliani, vicino ad Alba, dove produce il dolcetto e dove alleva un figlio, Pietro, che parla il langhetto e che mi chiama "nonu". Valeva la pena di fare questo gran giro per ritrovarsi al punto di partenza? Io penso di sì perché le città hanno fatto celebre l’Italia, ma ciò che la tiene assieme è la provincia, la cui grande ambizione è di andare in qualche modo politico o mondano o televisivo a Roma per raggiungere il desiderio forte di scapparne. Che ha di buono questa provincia? Ha di buono che c'è e, per cominciare, che ci dà da mangiare, legandoci alla natura che ci ha fatto nascere e che resta la cosa più misteriosa e interessante che si conosca. L'idea da provinciale che mentre noi siamo in coda in qualche puzzolente via metropolitana, mentre manovriamo le nostre macchinette, tutti i "tele" che ci servono per sopperire alle qualità naturali che andiamo perdendo, c'è un'Italia che continua a produrre parmigiano e vino, burro e pane, prosciutto e frutta, è un'idea che conforta. Un pensiero come quello di Maso, il provinciale toscano che racconta a Calandrino del paese di Bengodi "et eravi una montagna di formaggio parmigiano grattato sopra la quale stavano genti che niuna altra cosa facevano che fare maccheroni e ravioli". Ecco, la provincia è il pensiero che il mondo pazzo dello sviluppo senza limiti e senza senso ha ancora un luogo in cui i "tosoni", le forme di grana sui trentacinque-quaranta chili, vengono messe a spurgare sulle spersole un'ora dopo la cottura: sempre la stessa tecnica che gli dei hanno rivelato agli uomini nell'età dell'oro, se è vero che dio vuole qualcosa che non cambia ogni dieci minuti, che non è da buttar via appena lo hai inventato. Il pensiero che una campagna da cui sono fuggiti molti contadini è per fortuna ancora lì con i pascoli sempre verdi della marcite su cui anche in inverno c'è la lanugine luminosa della rugiada. Ancora lì con i miracoli millenari del caglio e della salamoia delle due mungiture unite per la miscela giusta fra latte scremato e cremoso; o del Vernengo, il grana giovane senza il quale i tortelli di magro non vengono buoni come nelle osterie vicine al Po di Piacenza. Ancora lì con i misteri gaudiosi della natura, dei grandi cru del vino: i misteri climatici, chimici e fisici per cui un Barolo nasce solo fino a quel cippo sulla collina; o un Castelmagno solo in quella valle; o ci sono acque che fanno lievitare il pane con soffici caverne ariose, saporito leggero mentre altre nelle grandi città lo appiattiscono a pastone. E questa Italia ha ragione a lamentarsi dell'avarizia di quella che spende e spande per le macchinette inutili, per lo spreco colossale dei consumi superflui e pessimi. La provincia è saggia, ha resistito alle mode e alle follie della fuga dalle campagne negli anni del "miracolo". Fra il 1953 e il 1963 se ne sono andati dalle campagne un milione e mezzo di persone. La provincia contadina sembrò condannata a morte, le dolci colline toscane abbandonate, Gabbiano, Quercitorta, Quercitortina, Torrette, La Rosina, Tetti Sergent: a ogni podere abbandonato il suo nome, il suo cartello stradale ancora per qualche anno, poi quattro muri diroccati. In certe valli alpine del Piemonte uno spopolamento del novanta per cento. E Elva nella val Naira è rimasta nel deserto, una Parrocchiale con affreschi di un pittore fiammingo mandato dai marchesi di Saluzzo per il popolo delle montagne. Fuggiti perché? Sì, lo sappiamo: il lavoro duro delle campagne, gli scarsi guadagni, l'ansia collettiva, la speranza di trovare fortuna. Ma la provincia ha tenuto e ha vinto, i contadini scesi in città per diventare operai hanno sbagliato il tempo, sono dei proletari sostituibili dalle macchine in tutti i lavori, mentre nella campagna del vino e del grano i "particular", i proprietari, hanno ritrovato il piacere sommo di cui parlava Luigi Einaudi di camminare sulla loro terra dicendosi "questa è mia, qui ho messo radici, non sono uno senza nome e proprietà che il vento si porta via". Luigi Einaudi era un conservatore illuminato, specie sempre più rara che solo la provincia produce ancora. Bartolo Mascarello, produttore di Barolo in Barolo, ha pubblicato prima di morire una memoria di Roberto Einaudi, il figlio del presidente Luigi che ha fatto fortuna in Argentina con le acciaierie dei fratelli Rocca: "I nostri genitori mai salutavano e parlavano ai nonni se non con il lei, che era segno di rispetto e devozione. A tavola soltanto nostro padre e nostra madre stavano seduti; perché i figli, finché non giunsero ad essere giovani fatti, mangiavan prima e poi facevano corona ai genitori in piedi e in atteggiamenti composti". Luigi il presidente così ricordava la mamma morta di spagnola nel 1919: "Come abbia potuto, negli anni che rimase vedova, provvedere a educarci e trasmetterci il piccolo peculio paterno è miracolo che può essere spiegato solo con la potestà che taluni hanno di sopprimere in sé ogni desiderio anche di cose necessarie quando la voce del dovere li chiama ad operare il bene altrui". Questa provincia puritana e virtuosa farà inorridire i contemporanei, ma il fatto che il ricco e fortunato Roberto Einaudi ne parli con affetto e orgoglio è segno che fabbricava anche uomini degni di una società civile. La provincia tiene l'Italia insieme perché alla prova del tempo anche i suoi aspetti che ci sono parsi retrogradi o mediocri sono da rimpiangere. Oggi la differenza fra l'Italia provinciale e quella metropolitana è questa: entrambe sono piene di ladri, di imbroglioni, di egoisti, di ipocriti; ma nella provincia il modello virtuoso, solidale, rispettoso della legge sta ancora in piedi mentre nell'altra si sono perse anche la vergogna, anche il pudore. Un ladro nella provincia cerca ancora di nasconderlo, perché nella provincia resiste il controllo sociale; nella metropoli se ne vanta. Nell'Italia della rassegnazione corrotta, è stata la provincia povera e abbandonata della Calabria a dare l'unico esempio di non rinunciabile dignità, a dire l'unico no all'Italia della mafia universale, l'unico grido di coraggio: "E adesso ammazzateci" dei giovani di Locri. La provincia difende la coscienza del tempo che passa di generazione in generazione, difende la memoria. Sono tornato nelle valli partigiane del basso Piemonte. Le ho trovate più strette, meno eroiche, meno belle che nella memoria ma con la stessa gente fedele alla sua terra e alla sua storia, dagli abitati di fondovalle a Dronero, a Caraglio, fino agli alti pascoli fioriti dove restano di presidio i santuari fatti con le pietre forti della montagna, centinaia di famiglie lungo i torrenti per il pranzo della domenica al sacco, e il sentimento che questa gente, questo popolo resisterà a tutte le miserabili storie del potere, consegnerà ai suoi figli, come gli Einaudi, memorie e nostalgie pulite. E consegnerà anche la salute e la vita della provincia che mangia e beve bene, con le gambe sotto il tavolo mentre quelli della città sono in fila in un bar o in un "mangiatoio" a trangugiare i panini mostruosi della cucina rapida, che se pensi alla provincia del culatello, di Busseto, Spigarolo, Frescarolo, Zibello Fontanellato ti vien da piangere. E ti ricordi la volta che hai visitato a Spigarolo il laboratorio di Carlo Dassena, dove sanno come si fa il culatello: la coscia deve essere grande, via la schiena e il collo che non sono abbastanza teneri, e dopo un primo spurgo con sale e pepe va benedetto con qualche spruzzo di Barbera, meglio se nella ciotola del vino è rimasto un profumo ma solo un profumo di aglio. Ho chiesto a Dassena dove si trova il culatello ottimo: "C'è una sola regola generale - ha risposto - scegliere fra quelli insaccati a dicembre e pronti a ottobre dell'anno dopo. Ma anche a scegliere le bestie giuste, è sempre un terno al lotto". Per il culatello la stessa maestria che per uno Stradivari, e gli stessi miracoli. Il culatello perfetto lo mangiavi a Samboseto dal Cantarelli, che ha portato con sé il suo segreto, pare fosse quello di farli maturare nel pozzo. Sempre la stessa storia: il salame della provincia contadina è buono perché il "particolare", il produttore, sceglie la carne migliore, la fa maturare nella camera da letto in modo che si asciughi al tepore, poi la fa rassodare in solaio; mentre l'altro di città esce dalle fabbriche come le auto dal Lingotto, è il "salame da corsa". E non fidatevi degli intellettuali cittadini che non si degnano di questi sciocchi discorsi sul cibo. Ho fatto molti esperimenti: dicono di non sapere niente di vino ma si scolano regolarmente il migliore. Una volta Franco Fortini, il poeta, venne da me per consegnarmi una lettera in cui mi metteva in guardia dalla letteratura cuciniera. Aveva posato la lettera sul tavolo per parlarne a fine pranzo. Gli servii una cotoletta alla Orlof con tartufi. Mangiò e si mise in tasca la lettera senza farmela leggere. Forse in questa nostalgia della provincia c'è anche la confortevole certezza di esserne fuggiti, ma non è proprio così: la fuga dalla città a fine settimana non è solo svago e riposo, al contrario è una fatica che facciamo per non perdere il piacere di guardare il mondo, di riportare nella nostra conoscenza del mondo il paesaggio fatto di campi, di fiumi, di colline, di montagne, di mare e non solo di case e di casoni come nella barriera corallina delle periferie. Anche il piacere di ritrovare la terra e noi stessi come Dio ci fece,brut e bun:brutti e buoni come quei dolci spugnosi delle vecchie confetterie. Ricordo quella di Cherasco, dove le due signorine proprietarie tenevano i loro cioccolatini amari nei vasi bianchi decorati di fiori blu come nelle farmacie le caramelle di genziana: celesti nutrimenti e celesti medicine. Anche il piacere di ritrovare la gente come è: bruttina, appassita e con le rughe; non rifatta e finta, che in città guarda i cartelloni pubblicitari e la televisione e quasi si vergogna di se stessa. Dalla provincia langarola arrivò a Roma un comandante di legioni che si chiamava Elvio Pertinace. Suo padre aveva fatto i soldi fabbricando panni e calzari per le legioni. Lui era un uomo di provincia, semplice e pratico. Andò a Roma come imperatore e durò pochi mesi: i pretoriani stanchi delle sue virtù lo trucidarono. Forse è per questo che noi provinciali a Roma viviamo con legittimo sospetto.

Giorgio Bocca

Giorgio Bocca (Cuneo, 1920 - Milano, 2011) è stato tra i giornalisti italiani più noti e importanti. Ha ricevuto il premio Ilaria Alpi alla carriera nel 2008. Feltrinelli ha pubblicato …

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