Giorgio Bocca: Miracoli e miserie del santo derby

23 Dicembre 2005
Milan-Inter, Roma-Lazio, i derby calcistici, scansioni della nostra vita sempre uguale, arrivano puntuali come Pasqua e Natale, Capodanno e Ferragosto, gli onomastici e i compleanni. Nell'occasione l'età della pietra, degli animali incisi nelle caverne del Pleistocene, rimasta quasi intatta fra le rivolte per la Tav e i telefonini portatili con televisione inclusa, torna in una domenica calcistica. Arcaica e modernissima.
Nell'ultimo Inter-Milan milioni di spettatori a metà fra l'homo erectus e il sapiens hanno visto il giocatore Adriano, una specie di King Kong brasiliano andato a scuola dai salesiani, segnare un goal con un potentissimo colpo della sua testa su cui parrucchieri specialisti tracciano di cesoia e rasoio uno zuccotto di forma papale, erigersi immobile nel campo, alzare le braccia al cielo e con entrambi gli indici ripetutamente indicare lassù il vero autore della prodezza calcistica. E nel rombo dell'applauso popolare che scatenava insisteva: lo ha fatto lui il goal.
Lui chi? Il padre il figlio o lo spirito santo? Ma tutti nello stadio sapevano chi, il figlio, Gesù, l'unico dio che veramente i cristiani capiscono anche se il papa tedesco che sa di teologia tenta di convincerli che ci sono anche gli altri. E in parte ci riesce con i fedeli europei che da quando son piccoli guardano al Giudizio della cappella Sistina come a una fotografia della famiglia celeste, ma non come i sudamericani, nati e cresciuti poveri con quel loro Gesù nella mangiatoia.
Al ringraziamento di Adriano e all'applauso dei fedeli si erano uniti anche i sacerdoti dell'euro-dollaro che come i loro predecessori caldei, egizi e romani stanno nella tribuna d'onore e che l'occhio cortigiano della televisione segue di continuo per vedere come esultano o si dolgono i Moratti e i Tronchetti Provera e se va bene anche la bellissima Afef del Tronchetti sposa, che per essere arrivata dal Marocco ha nell'immaginario dei tifosi un po' la parte di una regina d'Oriente.
E la vista dei milionari che spendono i loro soldi nel calcio è l'unico momento di democrazia totale che si conosca in questo mondo di faziosi e di invidie. Vedi che i tifosi arrivati da Campobasso o da Enna, che urlano alle telecamere "ho fatto mille chilometri per essere qui", anche quelli vestiti da motociclista con i berrettini colorati, amano come fratelli maggiori i quotati in Borsa con paletot di vigogna della tribuna dei ricchi nei cui occhi passa, per un attimo, il legittimo sospetto che sia solo un incantesimo fuggitivo.
E capisci anche che i soldi spesi per il calcio in fondo sono per i ricchi spesi bene: per gli affari e per la politica, perché gli guadagnano una fama da mecenati mentre stanno portando acqua al loro mulino.
Poi c'è anche il rito eterno del capro espiatorio celebrato dai masochisti che accettano il ruolo dell'arbitro, indossando pantaloncini e magliette vezzose, seguiti al minimo errore in quella bolgia di assatanati che è oggi una partita di calcio dominata dal pressing, cioè dalla caccia all'uomo più che al pallone, continua, da togliere il fiato, gli ometti di carne e ossa e mutandine che dovrebbero vedere e capire tutto in un istante fuggevole, in una ressa forsennata. Subito insultati e vilipesi dai cavernicoli con telefonini, di tutte le età e tutte le provenienze, arrivati magari da Enna o da Teramo "mille chilometri abbiamo fatto".
Sempre meglio comunque dei tecnici ed ex calciatori famosi che pur essendoci passati, nel calcio, fingono di non sapere che, come ricordavano i vecchi allenatori, ‟la palla è rotonda” per dire che va dove vuole alla minima zolla d'erba, al minimo soffio di vento. A un tavolo, vestiti di blu, nella fatica improba di tradurre in lingua e in ragione gli urli viscerali del tifo. Ma anche per il pazzo calcio ci vogliono i finti professionisti.

Giorgio Bocca

Giorgio Bocca (Cuneo, 1920 - Milano, 2011) è stato tra i giornalisti italiani più noti e importanti. Ha ricevuto il premio Ilaria Alpi alla carriera nel 2008. Feltrinelli ha pubblicato …