Stefano Rodotà: La rete invisibile che avvolge l’Europa

27 Dicembre 2005
Alziamo per un momento gli occhi dalle baruffe italiane, guardiamo verso quel che accade nel mondo e così capiremo meglio quali siano, alla fine del 2005, i destini delle nostre libertà e dello Stato costituzionale di diritto. Pochi giorni fa, il Parlamento europeo ha formalmente riconosciuto il diritto degli Stati di raccogliere e conservare i dati riguardanti tutte le comunicazioni elettroniche – telefonate, posta elettronica, accessi ad Internet. Questo vuol dire che nei venticinque Paesi dell’Unione si consolideranno, in maniera difficilmente reversibile, gigantesche banche dati contenenti migliaia di miliardi di informazioni. È un cambiamento d’epoca, quantitativo e qualitativo. Una rete invisibile e tenacissima già ci avvolge, e ci avvolgerà in modo sempre più stretto. Le società di persone libere si avviano a divenire "nazioni di sospetti".
Per comprendere che cosa significhi tutto questo, può servire un confronto con la più nota e controversa materia delle intercettazioni telefoniche.
Di queste molti si preoccupano, e si propongono norme che le regolino in maniera più rigorosa. Ma quasi nessuno riflette sui pericoli della conservazione per anni delle tracce delle comunicazioni elettroniche.
Ci si scandalizza del fatto che si sia arrivati a circa centomila intercettazioni l’anno. Nulla si dice di fronte ad una realtà che, solo in Italia, ogni anno produce la conservazione di non meno di ottocento miliardi di informazioni sulle persone che si scambiano comunicazioni elettroniche. Si osserva, però, che in queste banche dati, a differenza di quel che accade per le intercettazioni, non si conservano i contenuti delle comunicazioni. Ma questa può essere una garanzia solo apparente e divenire, invece, fonte di rischi ancora maggiori di quelli che oggi si corrono a causa delle intercettazioni.
Se una mia conversazione con un personaggio indagato viene intercettata, posso sempre dimostrare che i suoi contenuti sono del tutto innocenti, nulla hanno a che fare con la materia dell’inchiesta, liberandomi così da ogni sospetto. Ma se di quella telefonata si conoscono soltanto data, durata e luogo, non potrò mai escludere in maniera definitiva che il mio fugace rapporto con quel personaggio non avesse nulla di censurabile o di illecito.
Le intercettazioni, inoltre, devono essere autorizzate dal magistrato, riguardano persone determinate, sono limitate nel tempo. La conservazione dei dati delle comunicazioni elettroniche, invece, è prevista in via generale, riguarda tutti, ha tempi che possono essere lunghissimi. Diventa uno strumento che non serve soltanto ad accertare eventuali comportamenti illeciti, ma permette di ricostruire l’intera rete delle relazioni personali, sociali, economiche e gli spostamenti di ogni persona.
Un cambiamento così profondo viene giustificato con la necessità di disporre di strumenti nuovi per la lotta al terrorismo ed alla grande criminalità. Ma nei sistemi democratici le limitazioni delle libertà fondamentali devono essere sempre accompagnate da adeguate garanzie, che ancora mancano. E si può davvero sostenere che le regole sulla conservazione vigenti in Italia rispettino l’articolo 15 della Costituzione dove si afferma che "la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili" e che "la loro limitazione può avvenire soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge"?
Il Parlamento europeo ha fatto un tentativo di limitare i danni di una disciplina così pericolosa stabilendo, ad esempio, che i dati riguardanti le comunicazioni elettroniche possano essere conservati solo per un periodo variabile da sei mesi a due anni: e questa potrebbe apparire una garanzia significativa di fronte ad una realtà come quella italiana dove la conservazione dei dati già arriva fino a sei anni o di fronte alla pretesa polacca di conservarli per trent’anni. Ma questa garanzia rischia d’essere vanificata da un sistema di deroghe e di eccezioni che potrebbe avere un senso solo i poteri di controllo della Commissione europea fossero esercitati con un rigore finora del tutto assente. E la stessa possibilità di ricorso alla Corte europea di Giustizia, pur apprezzabile come apertura verso un controllo dei giudici, può rivelarsi faticosa e fragile.
Altri gravi motivi di preoccupazione nascono dal fatto che già vi sono pressioni perché le informazioni conservate per la lotta al terrorismo possano essere utilizzate anche per fini diversi, come la scoperta di chi scarica illegalmente musica o film da Internet. Rischiano così di aprirsi brecce che possono in concreto portare ad una società che controlla ogni comportamento individuale, con l’argomento che può risultarne danneggiato un qualsiasi interesse economico. Inoltre, i costi elevati della conservazione di quei dati ricadono unicamente sulle società telefoniche e sugli Internet providers: questo può spingere a risparmiare sulla sicurezza di queste enormi banche dati, facendo crescere la vulnerabilità sociale, ed a trasferire i costi sugli utenti, anche con distorsioni della concorrenza a svantaggio degli operatori più piccoli.
Tutto questo dovrebbe indurre a qualche riflessione politica e a qualche iniziativa volta a delineare un nuovo quadro di garanzie. Nessun segno è venuto finora, sì che rischia di nascere anche qui una pericolosa schizofrenia istituzionale. Ai cittadini viene promesso un futuro pieno di efficienza amministrativa e occultato un presente in cui si moltiplicano gli strumenti di un controllo sempre più invasivo e capillare. Sembra quasi che si stiano costruendo due mondi non comunicanti, e che l’e-government, l’amministrazione elettronica, possa evolversi senza tener conto della contemporanea compressione di diritti individuali e collettivi, motivata con esigenze di efficienza o di sicurezza.
Alla radice di questo atteggiamento vi è un mutamento dell’idea stessa di Stato costituzionale di diritto, che viene ormai pubblicamente proclamata. La dottrina Bush-Cheney rivendica la legittimità politica dell’uso illegale di strumenti come le intercettazioni telefoniche e trova diversi emuli al di qua dell’Atlantico, fino al nostro Presidente del consiglio che conferma la sua singolare idea di legalità affermando che "non si combatte il terrorismo con il codice alla mano". L’argomento della lotta al terrorismo, già adoperato per cancellare libertà dei cittadini, viene ora pesantemente speso per ridimensionare il ruolo dei parlamenti e della magistratura.
Per fortuna non tutti i parlamenti accettano questa logica. Il Congresso degli Stati Uniti è intervenuto nella materia della tortura e delle intercettazioni telefoniche, ha respinto la pretesa di Bush di ottenere una conferma senza condizioni del Patriot Act. La Camera dei comuni ha ridimensionato le richieste di Blair per le nuove norme antiterrorismo. Il vincolo di maggioranza non ha del tutto cancellato il ruolo dei parlamenti come guardiani delle libertà.
Dalle nostre parti, silenzio. Pure, la decisione europea dovrebbe scuotere qualcuno, offrire un appiglio concreto per interrogare il Governo sui tempi di conservazione dei dati e, soprattutto, avviare una discussione sul nuovo quadro di garanzie, che riguarda le responsabilità dello stesso Parlamento, i poteri di controllo della magistratura, un ruolo più penetrante per il Garante per la privacy.
Si dirà che questo Parlamento, ormai alla fine del suo mandato, non è in condizione di farlo. Ammettiamolo, a malincuore. Ma questo vuol dire che nell’agenda di lavoro delle prossime Camere il cambiamento d’epoca segnato dalla nuova condizione del cittadino elettronico dovrà trovare un posto rilevante. Per far questo, serve un Parlamento liberato dalle servitù che ne hanno mortificato l’azione, stringendolo tra voti di fiducia e blindature delle maggioranze. E il recupero del Parlamento alla sua alta funzione perduta esige una adeguata dignità dei suoi componenti, ma anche regole diverse che rendano impossibili la sua deliberata e continua mortificazione. Se ne parlerà nei programmi elettorali?

Stefano Rodotà

Stefano Rodotà (1933-2017) è stato professore emerito di Diritto civile all’Università di Roma “La Sapienza”. Ha insegnato in molte università straniere ed è stato parlamentare in Italia e in Europa. …