Umberto Galimberti: La stinta metropoli che spegne le emozioni

16 Gennaio 2006
Per lungo tempo in Occidente, dall’epoca greco-romana al XVII secolo, la città è stata, in opposizione alla campagna, il luogo della luce e del colore. Il suo carattere policromo, che faceva da contrasto con il carattere monocromo del paesaggio rurale, si attenuò nel Settecento fino a spegnersi nell’Ottocento, quando la civiltà industriale conferì alle nostre città quel carattere grigio e spento che né i manifesti, né le luci al neon, né le segnalazioni delle case e delle strade sono riusciti a ravvivare, per cui se il colore è vita, emozione, bellezza e, come diceva Matisse, ‟forza”, la sua sparizione è ‟la morte incolore” di cui parlava Pasolini che decolora ‟la stinta metropoli”. Nelle nostre città sul colore predomina la forma. E se il colore è il linguaggio degli affetti, come le ricerche di neuropsicologia hanno ampiamente dimostrato, la sua assenza nella città moderna è indubbio segno di un impoverimento emozionale del tessuto urbano, a vantaggio di una razionalità che si esprime in geometrie angolari e verticali che segnalano la prevalenza dei valori intellettivi rispetto a quelli affettivi. E pur non volendo aderire a una troppo facile attribuzione di valori rigidamente in opposizione fra loro, quali: razionalità e sentimento, forma e colore, è indubbio che le nostre città sono grigie non soltanto per i materiali con cui sono costruite (asfalto, metalli, cemento), ma soprattutto per quel grigio percettivo, psicologico e mentale che tutto sbiadisce, sotto la polvere grassa e nerastra che tende a ricoprire anche l’azzurro del cielo, aggiungendo all’iride l’ottavo colore: ‟Il grigio fumo di Londra”. Nebbioso e livido, il grigio è l’indizio di un ambiente artificiale, il colore dell’homo-faber tecnologizzato, robotizzato, in contrapposizione al vivace laboratorio cromatico della natura, che nelle nostre città è diventata una enclave di macchie verdi, indifferente nostalgia di un rapporto organico con l’ambiente naturale che l’uomo della città oggi non ha più. Nella ‟stinta metropoli” ingrigita, i colori compaiono solo come segnali-shock nei cartelli pubblicitari, nei segnali stradali dei divieti o dei sensi obbligati, nei semafori, dove il simbolismo cromatico assume un aspetto quasi caricaturale, per cui il rosso, perduta tutta la sua passionale polisemia che rimanda all’amore, al fuoco, al sangue, viene mortificato nella foresta dei divieti della città in un banale e mortificante imperativo di stop, mentre il blu, che è il colore dello spirito e di quelle immensità trascendenti che sono il cielo e il mare, viene svilito e costretto in quel superegoico messaggio che segnala il ‟senso obbligato”. Ma il grigio della città minaccia di diventare anche un grigio della memoria e quindi una perdita dei valori del tempo, che il naturale invecchiamento delle cose e dei materiali non mancano di segnalare. L’uso del metallo lucente e della plastica nonché il ricorso sempre più frequente ai materiali anticorrosivi delle leghe (la nichelatura, la bronzatura, l’acciaio inossidabile, l’alluminio anodizzato) tendono a ricoprire con una pelle meccanica il destino degli oggetti, nel vano tentativo di allungare artificialmente la vita nel segno dell’incorruttibilità, quasi un rifiuto all’invecchiamento e alla morte, che invece nelle nostre città trionfa nel segno del consumismo che, esasperato dalla moda, porta a una fine anticipata tutte le cose e tutti gli eventi. Ma forse siamo alla vigilia di un’inversione di tendenza. Si ha infatti l’impressione che nelle nostre città e nelle nostre case stia finendo l’epoca minimalista e stia tornando il colore, quindi forse anche l’emozione e il sentimento. Non i colori artificiali che danno luce alle notti delle nostre città in un eccesso di sollecitazione visiva, quasi una sorta di fagocitante cannibalismo cromatico, ma i colori naturali nelle facciate delle nuove costruzioni, siano esse case o capannoni, nelle pareti delle nostre case, negli oggetti che animano le nostre abitazioni, dove si ricorre al colore per esprimere valori di intimità ritrovata, amicizia, ospitalità, ma anche forza, potenza, eccitante aggressività. Quasi un contrappunto alle nostre emozioni e al nostro stile di vita che, per individuarsi ed esprimersi, ha un assoluto bisogno di uscire dalla ‟grigia indifferenza” delle nostre città. Indizio, oltre che di un’omologazione generalizzata, anche di una latente depressione e di una sfiducia che toglie futuro a ogni slancio e ripresa di vita che il colore sollecita e a un tempo riflette. I colori del futuro, infatti sono sempre accesi e carichi di promesse e rifiutano la sindrome grigia della ‟quadratura dei conti” che sembra sia diventata la ragione nascosta e anche un po’ asfittica della nostra vita.

Umberto Galimberti

Umberto Galimberti, nato a Monza nel 1942, è stato dal 1976 professore incaricato di Antropologia Culturale e dal 1983 professore associato di Filosofia della Storia. Dal 1999 è professore ordinario …