Giorgio Bocca: Le valli olimpiche e i fantasmi della nostra storia

30 Gennaio 2006
La prima cosa di queste valli olimpiche, fra Susa e Torre Pellice, è che sono occitane, cioè appartengono a una cultura che è difficile da riconoscere perché è materna, nativa, qualcosa che sembra che non ci sia, ma in cui si parla, si pensa, si ricorda ancestrale. Se leggo in quel dialetto piemontese che sa ancora di occitano un racconto dei malgari, le sensazioni di una marcia in montagna nella notte, provo emozioni che l’italiano scolastico non mi trasmette: «Ti tsei perdu per lì nt la nebia e as leva el son dle cioche e del can, leva le vache che t’an estrà. Le vache s’perdun nen». Le vacche non si perdono quando in montagna arriva l’ubac, che è poi l’ubago di Calvino nel mare ligure al tramonto, l’ombra che avvolge uomini e bestie. Se sei un occitano delle Alpi piemontesi, sei uno che ha bisogno di ubac e di mucche per finire la tua giornata di viaggio a piedi, da Blins a Barcelonette, dal Marguareis all’Orsera, per passare "la bercha", il crinale, il valico, per andare dove c’è bisogno di te, bisogno di pastori, ambulanti, impagliatori, pittori di piloni, quelli che sanno ammazzare il maiale. Arrotano i coltelli, ti portano il sale dagli stagni di Aigues Mortes in Camargue passando per il Pertus del Visu, la galleria del marchese di Saluzzo a tremila metri.) I montanari occitani sempre in cammino, forti e deboli, sconosciuti e fortunati e magari famosi come Cezanne, il pittore che veniva da Cesana, dove per le Olimpiadi fanno le gare di bob. O l'attore Belmondo, la cui famiglia si dice sia partita da Pietraporzio in valle Stura, dove c'è il giardino della regina occitana Giuana, due meli cresciuti sul precipizio e la casa della Mariagiuana che masticava l'erba che toglie la stanchezza. E non dimentico Fernand Contandin, l'attore Fernandel, originario della val Chisone o della val Varaita. Ce ne ho messo di anni per capire che c'era stata una guerra senza morti e prigionieri fra i miei fratelli occitani figli del sole e i burgundi di Germania scesi per le valli del Rodano, la battaglia sul modo di costruire le case. A Demonte occitana, con balconi, bifore, travi del tetto appoggiate in piano sui muri, e poco distante a San Bernolfo, i grandi tronchi di pino infissi ad uncino dentro i muri, le travi come la prua di una nave ad ancorare le case al terreno. Essere occitani significa appartenere agli uomini che camminano senza sosta per far vedere agli altri come si fa a lavorare, a vivere meglio: quelli che tagliano le scandole di larice e trasmettono il mestiere da padre in figlio, fabbri, stagnini, macellai, e anche quelli che non sanno fare niente ma sono volenterosi, come il gigante Ugo di Sambuco che girava per i baracconi di Parigi per mostrare le sue scarpe lunghe mezzo metro. Fu durante la guerra partigiana che noi occitani di città incominciammo non dico a scoprire il nuovo ma a riscoprire l'antico, il fai da te che i padri di famiglia devono conoscere. Come si conduce un mulo, come si fa una casa, come una stufa di pietra. Nelle valli olimpiche scoprimmo che i boschi erano stati rispettati dai carbonai e dai minatori, che erano rimasti migliaia di ettari di foresta, di cembri attorno al Viso, di larici da Salbertrand a Ulzio, e che in quel folto si erano salvati gli animali, le volpi, i lupi, le linci, i cervi, le aquile, i falchi e anche i piccoli strani animali delle favole che trovi nei capitelli delle chiese romaniche, volpi con due teste, lucertoloni con la lunga cresta fiammeggiante, ed è giusto che sia così, che la gente li veda ancora così, con i loro nomi strani, i Ravas, i Lopravart, i Leberon, i Cocul, la Maga, la Muhecola, pacifici e rapaci, bellissimi e orrendi. La specie degli uomini non è diversa da quella degli animali, anche lei ha i suoi tipi strani con due teste, tre gambe, solo che ne ha paura e ribrezzo. Ha paura anche delle fantine, quegli esseri morbidi e pelosi che a volte prendevano un bambino e lo portavano nel loro nido, ma erano affettuose e gentili e hanno insegnato alle montanare a tessere e a cucire. Virgilio parla del cinghiale del Viso, fortissimo, e tutti nella valle Germanasca ricordano Antoine Rochefort e il suo cervo dalla testa fiorita. Andò così, che Antoine si trovava nel bosco poco lontano da casa sua e d'improvviso gli si para contro, fremente e scalpitante, il grande cervo dalla testa fiorita. Lui afferra il fucile e la borsa delle munizioni e caccia un urlo di rabbia, ha dimenticato i pallettoni di ferro. Si guarda attorno, sul terreno ci sono solo delle nocciole. Le raccoglie e spara con quelle, il cervo è colpito in fronte ma fugge. Lo vedranno negli anni venturi: vicino al suo ramo fiorito è nato un ramo di nocciolo. Il bosco dei cembri in occitano si chiama alevee, è una lingua piena di parole dolci l'occitana, anche il monte dolomitico di Elva si addolcisce in Pelvo, ci sono pascoli morbidi nella Occitania piemontese, nelle Marittime, le Alpi dove l'aria profuma di sale e capita di vedere laggiù il mare. Ma ci sono altre due cose che delle valli olimpiche non si possono ignorare. Sono le valli della libertà, sono le valli del valore militare. La libertà religiosa, le guerre per la libertà religiosa ci stanno a noi occitani nella memoria, in un groviglio di pietà e di ferocia. Chi sono per noi occitani i "barbet" delle valli Germanasca e Chisone? Il fermo, paterno barun Litrun, il barone von Leutrum che difendeva la piazza di Cuneo assediata dai francesi, o le bande di Ugonotti di Francesco Garino che scendono dal Delfinato, occupano Dronero, arrivano a Vignolo e impiccano il parroco alle campane? Sono nemici i valdesi che combattono con il nostro amato Principe di Savoia? Sì, ma ne abbiamo fatto sterminio, li abbiamo cacciati a migliaia dalle nostre vallate. Nemici o amici fan parte della nostra storia, nella guerra partigiana abbiamo letto le "istruzioni militari" scritte da Josue Janavel di Rora che nel 1688 guidò per tre anni la guerriglia. I valdesi di Janavel che combattevano contro Amedeo II erano chiamati gli invincibili. Per secoli guerra senza respiro, la cacciata dei valdesi dalle valli, il rifugio in Svizzera e il grande ritorno fin sulle alture di Bobbio. C'è una stele in località Sibaud per ricordare il giuramento dei reduci. Erano dei buoni partigiani i valdesi, i loro antenati passarono inverni trincerati alla Balsiglia in val Germanasca. Ed erano partigiani valdesi della val Chisone quelli che ho conosciuto nell'estate del '44. Autonomi, non appartengono né ai Garibaldini né a Giustizia e Libertà. Li comanda Marcellin detto Bluter: è un sergente degli alpini, ha con sé mille uomini della valle, l'armamento è imponente, unico nella Resistenza, dieci pezzi di artiglieria da montagna, mortai da 81, mitraglie pesanti. Ho letto il diario di Marcellin: "Il laccio si stringe attorno a noi. È chiaro che il nemico prepara un piano di annientamento. È necessario pensare a resistere, uno contro dieci. Non c'è altra via, scioglierci è impossibile. Dove riparerebbero mille uomini? Siamo tutti concordi nel resistere". È di Marcellin la risposta al generale delle SS che gli chiedeva di arrendersi: "Nos montagnes sont a nous". Una parte degli uomini di Marcellin alla fine della battaglia della val Troncea ripararono da noi in val Varaita, dopo essere passati come nelle guerre di religione per i boschi di cembri del Monviso. Presero pane e farina, ringraziarono e il giorno dopo erano già in marcia per la val Chisone. Mi è rimasta una loro fotografia. Sono seduti su un prato, hanno con sé le loro armi, sotto il cappello alpino le loro facce sembrano eguali, larghe con nasi forti, come una mandria al riposo. L'altro giorno sui giornali c'era la notizia che un loro nipote, un maestro di sci, è stato arrestato dai carabinieri per traffico di droga. Marcellin lo avrebbe fucilato. C'è molta storia nelle valli delle Olimpiadi, molta storia piemontese.

Giorgio Bocca

Giorgio Bocca (Cuneo, 1920 - Milano, 2011) è stato tra i giornalisti italiani più noti e importanti. Ha ricevuto il premio Ilaria Alpi alla carriera nel 2008. Feltrinelli ha pubblicato …

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