Vittorio Zucconi: USA. La preghiera non aiuta a guarire

03 Aprile 2006
Chi c’è stato lo sa bene: non ci sono atei nelle trincee e nelle corsie d’ospedale, è vero. Ma c’è davvero qualcuno all’altro capo delle loro preghiere disperate, qualcuno che ascolti e risponda alle loro invocazioni? Si può favorire o, direbbe un empio, "comperare" la guarigione o la salvezza con la preghiere? La fede risponde di sì. La ricerca statistica, condotta da sei ospedali americani su quasi duemila pazienti, dà invece una risposta brutale che sembra voler spazzare via millenni di danze sacre, novene, rosari, invocazioni, salmi e montagne di ex voto: pregare per un paziente non serve a farlo guarire. Il Signore non pratica favoritismi tra chi invoca il Suo nome e chi lo ignora. Sono anni ormai, da quando la scienza della statistica e la sua figlioccia in camice bianco, l’epidemiologia, si arrovellano attorno al potere terapeutico della preghiera, che studi scientifici e devoti libri cercano di rispondere alla domanda che malati e parenti si pongono nel momento dell’ansia, in ginocchio in una cappellina, davanti ai propri dei o totem. Ora quest’ultima ricerca, guidata da un ospedale di impeccabile reputazione internazionale, la Mayo Clinic americana, pare rispondere in maniera tranciante. Quando hanno chiesto a professionisti delle orazioni divisi, per non far torti a nessuno, fra cristiani cattolici e cristiani protestanti, fra pastori battisti e monaci francescani, di mettercela tutta e di pregare per la guarigione di 1.200 pazienti operati di bypass coronarico, lasciandone altri 600 al destino e alle sole umane terapie, alla fine dello studio hanno constatato che le complicazioni post-operatorie non si riducevano per effetto delle orazioni. Anzi. Il campione, infatti, era diviso in tre: 600 oggetto di preghiere, avvertiti del fatto che qualcuno si stava rivolgendo al cielo per loro; altri 600, destinatari anch’essi di preghiere ma inconsapevoli; e 600 per cui nessuno ha pregato. Risultato, per il secondo e terzo gruppo (quelli che non sapevano se qualcuno stesse o meno pregando per loro), le complicazioni post-operatorie ricorrevano nel 51% dei casi, mentre per il primo (i beneficiari consapevoli delle altrui invocazioni), la percentuale saliva al 59. Nei siti cristianissimi dell’America che veleggia fra Bibbia e Politica, fra teo e con, come le congregazioni di Jerry Falwell, quello che lesse nell’11 settembre la punizione divina contro omosessuali e abortisti, o del Club 700 di Pat Roberston, il ‟killer pastor” che suggerì a Bush di far assasinare prima Saddam Hussein e poi Hugo Chavez, lo sdegno è comprensibilmente forte. Sul potere della preghiera individuale e collettiva come strumento di miracoli instant, spesso praticati in diretta davanti a folle da stadio, molte fortune sono state costruite, e non soltanto religiose. Ma la Chiesa Cattolica, sempre giustamente diffidente di statuette piangenti e di miracoli a comando, rimette le cose nell’ordine mistico corretto: ‟Questo studio non prova nulla”, dice il cappellano della Clinica Mayo, Dean Marek, ‟certamente non prova che Dio esista o non esista”. Agli scettici, questo genere di ricerche ricorda quella formule da vecchi atei positivisti ottocenteschi che pretendevano di smentire l’esistenza di Dio mettendolo in tentazione, ‟se Dio esiste che mi uccida in questo istante con un fulmine”, e ai credenti, che come tali hanno una profonda convinzione nel mistero della Provvidenza e dei disegni divini, non farà certamente gettare immagini sacre, libri di devozioni, preghiere e rosari. E più che una ricerca decisiva, anche questa sembra una sfida un po’patetica da neo Frankenstein positivisti, un tentativo di imbottigliare il mistero. Otto anni or sono, in ospedali inglesi, un altro studio, su scala minore, diffuso dalla BBC, sembrò dimostrare il contrario, che cioè coloro che disponevano di parenti e intercessori guarivano più spesso degli altri. E, senza addentrarci nelle tenebre imperscrutabili del miracolo, molti sono i medici e gli psicologi che hanno osservato gli effetti benefici della preghiera nella persona che vi si affida, come fece una lunga inchiesta di Time condotta da Leon Jaroff nel 2002. Forse è soltanto l’effetto placebo, cioè l’autosuggestione, e dunque l’ennesima dimostrazione del potere del pensiero sul corpo, ma molti malati di Aids studiati e seguiti da ospedali di San Francisco, mostravano miglioramenti misurabili che le terapie cliniche non spiegavano, concluse il settimanale. Questo condotto dai sei ospedali americani in Illinois su 1.800 paziente era più crudele, perché escludeva le preghiere dei pazienti stessi, dunque ogni possibilità di effetto placebo o di autosuggestioni e affidava a terzi, al ‟pregate per me”, il successo. La grazia per conto terzi non è una procura legale davanti all’Onnipotente, un biglietto che altri possano pagare per la guarigione, e l’esito finale dell’indagine arriva infatti a una cifra che forse contiene una morale più sottile: mentre le complicanze post-operatorie sono state più numerose fra i ‟raccomandati a Dio”, alla fine i morti sono stati esattamente lo stesso numero. Dunque, se ormai è, o dovrebbe essere accertato da tempo, che le preghiere non servono per tirare i calci di rigore o per aiutare i somari a superare gli esami, resta in piedi quella certezza scientifica attorno al quale danzano sciamani, si costruiscono templi, moschee e cattedrali. La preghiera, a differenza della medicina, non fa mai male.

Vittorio Zucconi

Vittorio Zucconi (1944-2019), giornalista e scrittore, è stato condirettore di repubblica.it e direttore di Radio Capital, dove ha condotto TG Zero. Dopo aver cominciato nel 1963 come cronista precario a …

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