Vittorio Zucconi: Spazio. La spartizione del mondo

25 Ottobre 2006
George Bush ‟militarizza lo spazio”, l’America vuole lo spazio in esclusiva per sé, gli Stati Uniti pretendono anche l’Ultima Frontiera che ancora sembrava aperta e non colonizzata, George ‟the Space Cowboy”. Così, in tutto il mondo, i titoli e le grida accompagnano il via libera dato dalla Casa Bianca alla trasformazione dello spazio extra atmosferico in una fortezza orbitante, come fosse la profanazione finale di ciò che ancora restava un tabù sacro. Eppure anche questo, come tutti i tabù, era costruito su un falso, sul mito dello spazio come ultima frontiera dello spirito umano. Non è mai stato così, nonostante trattati solenni e giuramenti oggi stracciati da Bush. Il mito era nato morto la mattina del 3 ottobre 1942, quando per la prima volta nella storia dell’umanità, un oggetto lanciato da noi terrestri mise il naso oltre i 100 chilometri di altezza, che sono appunto il confine dello spazio. Quel razzo, chiamato da Von Braun ‟A2”, ma destinato a raggiungere la propria sinistra fama con il nome definitivo di ‟V2”, era un’arma, uno strumento concepito esclusivamente per portare distruzione di massa e sessantacinquemila inglesi sarebbero stati uccisi dalla morte venuta per la prima volta dallo spazio. La V2 era il prototipo di quello che scienziati, generali, governanti avrebbero poi cercato di fare per tutte le generazioni successive nascondendosi dietro pretesti, ideologie, proclami di innocenza e che ora George Bush ha formalizzato nel suo documento sulla politica spaziale americana, che vuole proiettare oltre la terra la propria superiorità bellica nel XXI secolo: conquistare, controllare e negare agli altri, secondo i più classici e intramontabili dettati della strategia militare, la posizione più elevata dalle quale meglio difendersi agli attacchi e più facilmente colpire l’avversario. Lo spazio è da tempo la quarta dimensione del campo di battaglia, oltre la terra, l’aria e l’acqua. Dal primo, timido passo nel cielo sopra la battaglia, con le mongolfiere sperimentate da Napoleone per dirigere i tiri d’artiglieria fino alle prime intuizioni del capitano d’aviazione italiano Dohuet che nel 1910 capì il potenziale del bombardamento aereo, l’arrampicata dell’umanità nell’ultima dimensione ancora vergine di armamenti è divenuta irruzione. Ci sono, in questo momento, oltre 800 satelliti funzionanti in orbita sulla nostra testa e più della metà - 430 - sono americani. Accanto a loro, sparpagliati in quell’enorme cassonetto della spazzatura tencologica che ormai il nostro cielo è, ruotano almeno 300 mila rottami orbitanti, satelliti defunti, pezzi, stadi di missili, ciarpame assortito che va dalle dimensioni di un millimetro in su e che ruotano da un’altezza minima di 80 chilometri fino ai 36 mila delle ‟sentinelle” che spiano lanci di missili. Generali, scienziati e governi studiano, più o meno segretamente, come passare dalla difesa passiva della sorveglianza e della comunicazione, all’offensiva. Il paradosso delle ‟guerre stellari”, come furono soprannominate negli anni '80 quando Reagan lanciò l’iniziativa per la difesa antimissile, è che nulla è strettamente offensivo né esclusivamente difensivo, e ciò che serve da scudo può essere visto dagli altri come una spada. La discussione che si scatenò attorno alla visione del fisico ungherese Edward Teller, il ‟Von Braun” delle guerre spaziali, fu appunto questa: costruire e attivare un sistema di ‟cacciatori di missili” significherebbe, se funzionasse, annullare le capacità offensive del nemico e renderlo quindi vulnerabile alle mie armi, senza possibilità di rappresaglia. Disse l’astrofisico Carl Sagan: «Per battere uno scudo spaziale basta costruire e lanciare più missili». Ma senza neppure entrare sul terreno nebbioso delle nuove minacce nucleari, quelle che potrebbero essere portate dalla famigerata ‟bomba in valigia” nella mani di un terrorista contrabbandiere, l’altro paradosso sta nella estrema vulnerabilità dei satelliti ad attacchi diretti ad accecarli o distruggerli, sia da terra, che da altri satelliti killer, come i Cinesi hanno dimostrato riuscendo a ‟illuminare” da terra con un laser non letale un satellite Usa. Nel campo di battaglia di oggi, e soprattutto di domani, la dipendenza dallo spazio del fante sul terreno, come del più raffinato missile da crociera, è enorme. Non c’è unità militare che non dipenda dal sistema Navstar Gps, lo stesso che le nostre automobili utilizzano per navigare nel traffico di Roma o di New York. Senza il segnale dal cielo, i missili sarebbero viandanti ciechi, i serventi dei pezzi di artiglieria non conoscerebbero la loro esatta posizione e dunque la traiettoria da scegliere per i loro proiettili, la Humvee di pattuglia nei deserti dei nuovi campi di battaglia rischierebbe di perdersi tra le dune. Le navi e i sottomarini lancia missili devono sapere dove si trovano esattamente, per programmare i vettori. «I satelliti guidano di casa in casa anche il povero sergente che si avventura per le strade di Baghdad» ha detto il colonnello Arthur Cordesman, analista di nuove tecnologie militari. Il combattimento è ormai ‟netcentrico”, vincolato a quell’Internet (anch’essa figlia di un dipartimento del Pentagono). Chi controlla il cielo, controlla la terra e i 22 miliardi di dollari spesi ogni anni dal Pentagono, più i 5 miliardi destinati allo scudo spaziale, lo dimostrano. Sparpagliati in progetti ‟neri” cioè segreti, quei miliardi comperano progetti dagli acronimi esotici e incomprensibili. Gli Sbi, intercettori basati nello spazio, satelliti antisatelliti capaci di raggiungere e di colpire satelliti nemici, con laser a raggi X, laser chimici o esplosivi tradizionali portato da mini missili che la fantasia dei creatori ha battezzato ‟Brilliant Pebbles”, ciotoli luminosi. Il ‟Checmate”, sigla che vuol suonare come ‟scaccomatto” è un cannone spaziale, che può essere usato sia da piattaforme in orbita sia da terra, per indirizzare proiettili a ipervelocità capaci di disintegrare astronavi e missili. Non può mancare il raggio della morte alla Flash Gordon, il ‟Bear”, dalle iniziali di raggio acceleratore di particelle, già testato con successo nel 1989, mentre un arsenale di diversi tipi di laser è montato a bordo di jumbo jet convertiti a uso bellico o, in futuro, su satelliti, navette orbitanti, veicoli con o senza umani a bordo, protetti da picchetti di altri satelliti guardie del corpo. Sempre meno rilevante o addirittura necessaria, la presenza di piloti o astronauti diviene un ingombro, un fastidio, un problema da risolvere, di fronte alla estrema fragilità delle creature umane nello spazio micidiale. La guerra verso la quale ormai si galoppa non sarà le ‟Star Wars” di guerrieri coraggiosi lanciati contro il nemico come immaginate da Lucas per dare ‟interesse umano” ai suoi film, ma sarà guerra di robot e di computer, gelida, silenziosa, fulminea. E noi umani là sotto torneremo a essere quello che i 65 mila britannici erano di fronte alle V2 di Von Braun, del disponibile genio che portò le proprie conoscenze negli Stati Uniti e realizzò la promessa kennedyana dell’uomo sulla Luna entro gli anni ‘60. Completamente indifesi, sotto un cielo capace di sorvegliarci passo per passo e di annientarci senza preavviso, con un click.

Vittorio Zucconi

Vittorio Zucconi (1944-2019), giornalista e scrittore, è stato condirettore di repubblica.it e direttore di Radio Capital, dove ha condotto TG Zero. Dopo aver cominciato nel 1963 come cronista precario a …

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