Gian Antonio Stella: I dirigenti pubblici? Tutti assi, da pagare al massimo

30 Ottobre 2006
Su con la vita: siamo nelle mani di fuoriclasse. Lo dicono le pagelle dei massimi dirigenti ministeriali che stanno a Roma o sono sparsi in giro per l’Italia: su 3.769 altissimi funzionari delegati a far funzionare la macchina statale, non c’è un solo ronzino, un somaro, un brocco. Tutti campioni. Capaci di raggiungere tutti gli obiettivi loro assegnati. Degni, per il loro lavoro, del massimo dei voti. E quindi dell’allegato premio di produzione. I soliti criticoni diranno: non è possibile. E citeranno i tempi biblici di quell’ufficio ministeriale dove certe pratiche si depositano così a lungo da dovere essere datate col carbonio 14 come i rotoli di Qumran, l’assenteismo cronico di quell’altro, le cataste di carte ammucchiate nei corridoi impolverati di quell’altro ancora... Difficile negarlo: non c’è giorno che Dio mandi in terra senza che emerga una nuova magagna della nostra amministrazione pubblica. Le cui responsabilità nella progressiva deriva dell’Italia nelle classifiche mondiali della produttività sono di plastica evidenza. Eppure questo ha denunciato Luigi Nicolais, il ministro delegato alla Funzione Pubblica e all’Innovazione, al convegno della Cgil sulla malasanità: ‟Il tentativo di misurare l’efficienza di chi dirige gli uffici pubblici non ha dato i risultati sperati. Diciamolo: il meccanismo non funziona. Parlo solo per i dipendenti dei ministeri: possibile che tutti i dirigenti, e dico tutti, abbiano ottenuto il massimo della valutazione? Non dico ci sia un dolo... Ma certo c’è qualcosa che non torna”. Un passo indietro. Siamo nel 1999. Il governo di Massimo D’Alema, con Angelo Piazza alla Funzione pubblica, vara la legge 286 che si propone di ‟privatizzare” la macchina amministrativa introducendo alcuni criteri che valgono in tutte le imprese private da Oslo a Pretoria, da Seattle a Brisbane: questi sono i conti, questi sono i dipendenti, questi sono gli obiettivi da raggiungere, questi sono i tempi per farlo. Una scelta di puro buonsenso: ‟Ricordo che ci ispirammo soprattutto al modello canadese e a quello britannico”, ricorda Claudio Bressa, allora sottosegretario impegnato nella faccenda, ‟come ricordo che la cosa fu molto apprezzata dall’Ocse”. Il titolo, come sempre, era da delirio: ‟Riordino e potenziamento dei meccanismi e strumenti di monitoraggio e valutazione dei costi, dei rendimenti e dei risultati dell’attività svolta dalle amministrazioni pubbliche, a norma dell’articolo 11 della legge 15 marzo 1997, n. 59”. Le parole usate erano un diluvio: 3.757. Poche meno di quelle spese da Giovanni XXIII per aprire il Concilio Ecumenico Vaticano II e quasi il triplo di quelle utilizzate per la dichiarazione d’Indipendenza americana. Il significato politico però era chiaro: prima che lo Stato affondasse nell’inefficienza era assolutamente indispensabile innestare meccanismi che permettessero di monitorare la situazione e selezionare meglio la classe dirigente. Arrivando via via alla scrematura che nelle aziende private c’è: di qua quelli bravi, di là gli scarsi. Diceva l’articolo 5: ‟Le pubbliche amministrazioni, sulla base anche dei risultati del controllo di gestione, valutano, in coerenza a quanto stabilito al riguardo dai contratti collettivi nazionali di lavoro, le prestazioni dei propri dirigenti, nonché i comportamenti relativi allo sviluppo delle risorse professionali, umane e organizzative ad essi assegnate”. Le valutazioni, ovvio, non potevano basarsi solo sui risultati economici: chi offre un servizio pubblico non può avere ‟solo” quel riferimento. Qua e là lo Stato può anche scegliere, giustamente, di operare in rosso. L’importante, però, è che il motore giri al meglio. Per dare una ‟spintarella” in più al progetto, fu deciso d’accoppiare la pagella positiva a una integrazione dello stipendio. Cosicché la busta paga fosse composta di due parti: una fissa (legata all’anzianità e alla funzione, buona sia per i fuoriclasse che per i ronzini) e l’altra mobile (tra il 10 e il 15%, dice lo staff di Nicolais) legata alla capacità o meno di raggiungere gli obiettivi anno dopo anno assegnati. Tutto chiaro? Tre anni dopo la Corte dei Conti, presieduta da Francesco Staderini, denunciava già che il meccanismo, non solo per i dirigenti, faceva acqua e bollava come ‟del tutto insoddisfacente, se non preoccupante, la situazione con riferimento ai controlli interni di gestione nell’ambito dei dipartimenti e delle singole direzioni generali dei vari ministeri”. Di più: ‟Anche dove sono state individuate le unità di controllo non si sono registrati concreti e significativi risultati operativi. La difficoltà di enucleare idonei criteri e metodologie per controllare le gestioni, oltre alle riforme organizzative in corso, hanno frenato ogni iniziativa”. Di più ancora: al ministero della Giustizia ‟non sono stati nemmeno costituiti l’organo per il controllo strategico e le unità interne per il controllo di gestione”. Oggi, stando alle pagelle dei vertici dell’amministrazione governativa, la situazione si è cristallizzata. I direttori generali sono 336, i direttori di seconda fascia 3.433. Per un totale di 3.769 dirigenti. Bene: sono tutti fenomenali. Laboriosissimi, brillantissimi, scrupolosissimi, onestissimi, preparatissimi... Tanto da meritare tutti il massimo dei voti. Tutti tutti? ‟Praticamente”, rispondono al ministero. Cioè? ‟Saranno il 99 e passa per cento”. Cioè, qualche zuccone c’è? ‟Eccezioni. Magari per motivi di carattere”. Due o tre eccezioni? ‟Ecco, forse due o tre...”.

Gian Antonio Stella

Gian Antonio Stella è inviato ed editorialista del “Corriere della Sera”. Tra i suoi libri Schei, L’Orda, Negri, froci, giudei & co. e i romanzi Il Maestro magro, La bambina, …