Vittorio Zucconi: La condanna di Saddam. L’ultimo spot per il comandante George

06 Novembre 2006
Pilotata con cura verso una sentenza già scritta nelle sue colpe, ma emessa "a orologeria" nella data scelta per dare ossigeno elettorale al partito del Presidente, la parodia irachena del processo di Norimberga ha prodotto una condanna a morte che ha un evidente obbiettivo: quello di legittimare a posteriori l’invasione dell’Iraq e la dottrina del regime change, dell’abbattimento con la forza di quei despoti abbastanza deboli per poter essere rovesciati far rischi di rappresaglia. "Una bella giornata per l’Iraq", ‟un trionfo per la democrazia”, ha potuto dire Bush che nella promessa di impiccagione per il nemico di famiglia sta assaporando quella vendetta tanto sognata contro l’uomo che "aveva tentato di uccidere il mio papà", come aveva spiegato in campagna elettorale sei anni or sono.
La "piccola Norimberga" organizzata sotto il controllo delle autorità di occupazione e arrivata alla prima sentenza dopo avere cambiato d’imperio quattro presidenti del tribunale perchè mai abbastanza disponibili, dovrebbe essere quella prima giornata di sole che la Casa Bianca disperatamente cerca da tre anni e dal fiasco vergognoso delle "armi di distruzione di massa". Ma anche un conto saldato dalla famiglia Bush contro un uomo che aveva incarnato più di una sfida militare, ma una offesa personale a un clan, appunto quello dei Bush, che considera le sconfitte e le irrisioni come un insulto all’intero gruppo. Quanto sereno sia poi davvero il clima, mentre lo stesso criminale di guerra condannato si preoccupa di invitare i propri sostenitori Baathisti e la gente del proprio clan tikrita a non abbandonarsi alle violenze, lo dimostrano i 73 cadaveri di sunniti (l’affiliazione di Saddam) uccisi dalle squadre della morte Shiite e l’attacco armato alle guardie del corpo del presidente nominale del Paese, Talabani, sfuggito alla morte in queste ore.
Ma il raggio di luce che l’amministrazione Bush, e il figlio vendicatore del papà, cercavano e che hanno avuto, è quello che per tutta la giornata di domenica ha illuminato gli schermi delle televisioni, diradando l’atmosfera di doom and gloom, di cupezza catastrofica, che stava annebbiando le ultime ore prima del voto nelle politiche di domani. La dinamica del nuovo modo di fare politica nel tempo di Internet e dei canali di notizie 24 ore su 24 si traduce nel domino del news cycle, del rullo dell’informazione continua. Controllare il ciclo dei titoli, delle immagini, dei commenti e dei notiziari nella immediata vigilia del voto è specialmente essenziale, perchè un terzo degli elettori, soprattutto dei decisivi indipendenti e incerti, sceglie se votare o per chi votare nelle ultimissime ore. Anche per questo, il valore dei sondaggi raccolti settimane, o giorni, in anticipo è sempre molto aleatorio.
E il news cycle di questo ultimo week end pre elettorale è naturalmente dominato dal viso barbuto, stravolto e fremente di quel "demonio" della Mesopotamia che gli americani (gli elettori) avevano dimenticato e che ora gli viene esibito, come l’icona del male davanti alla quale farsi il segno della croce e votare repubblicano, il partito della "guerra al terrore". L’idea è di convincere abbastanza elettori che "votare democratico significhi votare per Saddam". Si spera chje Saddam abbia ancora la capacità di spaventare, perchè sulla paura è stata costruita questa presidenza Bush e la gente cominciava, con grave rischio per la destra, a non avere più paura. Giustizia sarebbe stata servita anche se la inevitabile condanna per crimini contro l’umanità fosse stata emessa un mese fa o in dicembre. Ma nell’accavallarsi delle notizie, che si contendono la effimera attenzione del pubblico, non avrebbe avuto alcun impatto elettorale.
I registi della "Norimberga sull’Eufrate" sperano invece che i cittadini avviati alle urne domani si presentino davanti agli schermi dei computer "tocca e vota" avendo stampata negli occhi l’immagine di quel barbuto furioso che ora minaccia, conciona, invoca la grandezza di un Allah che aveva ignorato quando riponeva la sua fede nella polizia segreta, nei mazzieri del proprio partito e nei gas nervini. E si appella alla nobilità nazionale di un Iraq che proprio lui, lanciandolo prima nella inutile strage della guerra contro l’Iran, con l’incoraggiamento e il sostegno di Washington, e poi nella demente occupazione del Kuwait che lo avrebbe definitivamente distrutto, aveva demolito e umiliato.
Ma il Saddam reality show pregustato dai Bush, in quell’aula da kangaroo court, come si dice nel gergo legale quando i magistrati scavalcano agilmente le procedure e i codici appunto come canguri, doveva servire al consumo del pubblico Usa, più che a quello iracheno, dove da tempo ormai i martoriati abitanti di quella terra sanno bene che il vecchio "demonio di Tikrit" è storia di ieri e il potere di vita e di morte si è metastizzato nelle bande e nelle milizie che si combattono nelle vie della città e sono padrone del territorio. Persino il timore che la condanna a morte del tiranno possa accelerare la guerra civile in atto da mesi sembra soltanto l’ennesimo pretesto per imporre il coprifuoco in città e paesi nel quali, dicono i testimoni, il coprifuoco volontario è già in atto e soltanto i folli e i criminali osano uscire nella sera.
Come l’abbattimento della famosa statua del raìs sulla piazza del paradiso, che furono i soldati americani a dover spezzare tra la scettica indifferenza degli iracheni, così questo processo e questa sentenza sono uno show prodotto con la regia di Washington. Un’arma di distrazione di massa perchè per le ultime 48 ore Bush e i suoi repubblicani, in rimonta sui democratici, possano dire finalmente qualcosa di apparentemente positivo sull’Iraq, anzichè doversi difendere dalle accuse universali di avere combinato un disastro. Se i repubblicani dovessero scampare al giudizio elettorale, Saddam Hussein potrebbe dire di essere stato colui che ha salvato Bush. Una condanna forse ancora più crudele, per lui, di un’impiccagione.

Vittorio Zucconi

Vittorio Zucconi (1944-2019), giornalista e scrittore, è stato condirettore di repubblica.it e direttore di Radio Capital, dove ha condotto TG Zero. Dopo aver cominciato nel 1963 come cronista precario a …