Giorgio Bocca: A Kabul è caduto un altro dogma fasullo

20 Dicembre 2006
Il governo del mondo è affidato ai luoghi comuni, smentiti le mille volte, sempre ripresi come dogmi. Uno fra i tanti è quello che riguarda l'Afghanistan: "Dall'Iraq e da quasi tutti i paesi del Medio Oriente ci si può ritirare, ma dall'Afghanistan no". Perché?
L'ultima risposta obbligata e pochissimo convincente è quella del presidente Romano Prodi: "Non possiamo abbandonare milioni di persone", ma il fatto incontrovertibile è che milioni di persone possono nel frattempo averci abbandonati se è vero, come pare, che il controllo della Nato, dell'Occidente, si è ridotto a Kabul e dintorni, circondata dai signori della guerra che appoggiano il ritorno dei talebani.
Dunque il dogma ‟non possiamo lasciare l'Afghanistan” è già smentito dalla sconfitta militare che a parere dei generali e dei politici americani, quindi occidentali, è irreparabile, in nessun modo mutabile in una vittoria.
Oltre il governo fantoccio di Karzai non si potrà andare, il rifiuto della popolazione afgana dei governi stranieri è, del resto, storicamente certo: dopo Alessandro il Grande nessuno è riuscito a metter piede in modo stabile in questo paese, neppure i russi quando avevano il più forte esercito di terra del mondo.
Su cosa di vero, di concreto, si basa il dogma che l'Afghanistan non è abbandonabile dalle grandi potenze occidentali? Su un altro indiscutibile falso dogma: l'insostituibilità del petrolio, l'idea che il petrolio sia la premessa, il fondamento del primato dell'Occidente, del suo predominio militare, del suo privilegio economico.
Il dogma funzionava fin quando il predominio militare degli Stati Uniti e della Nato era indiscutibile e il suo peso decisivo nella politica estera: bastava mettere in campo la forza delle atomiche e delle portaerei e regolarmente la partita si risolveva a favore dei ricchi e potenti. Ma se questa superiorità militare non esiste più o è molto ridimensionata, se gli eserciti della democrazia non riescono più a piegare la ribellione irachena, vengono fermati nel Libano, sono sull'orlo del baratro in Afghanistan, tutto il sistema basato sul controllo militare delle risorse petrolifere viene messo in discussione.
E allora si incomincia a capire che anche questo dogma, anche questo basilare luogo comune può essere superato, che chi ha il petrolio in casa deve poi venderlo a quelli che non ce l'hanno, che insomma il mercato può sostituire le armi e imporre la circolazione delle merci per la soddisfazione dei bisogni.
Il presidente americano Bush è andato a Saigon per dire che gli Stati Uniti "hanno appreso la lezione vietnamita e questa volta non si ritireranno", che suona come una supergaffe dato che dal Vietnam gli Stati Uniti non si ritirarono per errore, ma perché sconfitti. I grandi strateghi e politici del pianeta hanno insomma scoperto che il petrolio chi non ce l'ha, come la Cina o l'India, se lo compera.
Ma c'è un altro dogma che sta ridimensionandosi: il dogma della bomba nucleare, misura assoluta del potere, inseguita come un miraggio, come la salvezza dai paesi che non ce l'hanno. È servita per l'equilibrio del terrore, ma è il terrore del suo impiego che oggi la paralizza. C'è ancora qualcuno dei grandi esperti militari che crede nella bomba, che attribuisce agli Stati Uniti nel caso fossero attaccati la possibilità apocalittica di ‟vetrificare i nemici”, di ridurli a zero. Ma non è così: l'unico vero potere che i detentori della bomba hanno è di scatenare la terza e definitiva guerra mondiale.
C'è qualcosa di supremamente grottesco nella corsa alla bomba delle medie e piccole potenze del mondo, nelle folle festanti quando la posseggono. Sono arrivati fuori tempo massimo, a corsa già finita, al bivio insuperabile: o il disarmo o l'apocalisse.

Giorgio Bocca

Giorgio Bocca (Cuneo, 1920 - Milano, 2011) è stato tra i giornalisti italiani più noti e importanti. Ha ricevuto il premio Ilaria Alpi alla carriera nel 2008. Feltrinelli ha pubblicato …