Vittorio Zucconi: Saddam. La fine del nemico non dell’incubo

02 Gennaio 2007
Nato come marionetta costruita e azionata da Washington per essere usata nel teatro della Guerra Fredda contro i ‟Rossi” e poi contro i ‟Neri” ayatollah iraniani, Saddam Hussein è morto da marionetta, appeso al quello stesso filo americano che dopo averlo tenuto in piedi ha finito per spezzargli il collo. La parabola di Saddam Hussein, dai finanziamenti segreti passando per le premurose strette di mano di Donald Rumsfled a Bagdad fino al suo strangolamento su commissione, si riassume nelle parole che il burattinaio, George Bush, ha fatto pronunciare da un portavoce quando i boia in passamontagna da terroristi hanno condotto la loro vittima nel recinto dell’esecuzione: ‟La sua morte è il testamento della volontà del popolo iracheno di avanzare verso la creazione di una società governata dalle leggi”. Siamo quindi, dopo quattro anni di guerra e di occupazione, dopo elezioni esaltate come l’alba della ‟giovane democrazia” ancora lontani da una ‟società governata da leggi” e non da uomini. Molto lontani, come il lungo, importante bollettino post mortem letto per conto di un Presidente che fingeva di dormire - così ci dicono - quando la notizia della morte dell’ex alleato puntellato dalla Cia e poi divenuto lo ‟Hitler della Mesopotamia” si è diffusa, riconosce. ‟Aver fatto giustizia di Saddam Hussein non porterà alla fine della violenza in Iraq, ma è un’importante pietra miliare sulla rotta che lo condurrà a divenire una democrazia autosufficiente e alleata nella lotta al terrorismo”. Queste della ‟lunga strada”, della ‟rotta”, delle ‟pietre miliari”, del ‟divenire” e non più dell’‟essere” una democrazia come era stato proclamato dopo le giornate elettorali dei pollici viola, sono le nuove metafore d’occasione scelte da un’amministrazione che ha abbandonato ogni pretesta di ‟missione compiuta” e di ‟svolte decisive”. Basta confrontare la circospezione di questo comunicato affidato a tarda sera a un portaborse davanti al ranch texano di Crawford scosso da un tornado che aveva costretto Laura, George e i loro due cagnetti a chiudersi in un rifugio rinforzato, per vedere quale secchio gelido di realtà l’Iraq abbia rovesciato su questa presidenza. Nel novembre del 2003, quando la marionetta degli interessi strategici e petroliferi dell’Occidente spezzata dalla propria ambizione fu estratta irsuta e pulciosa dalla sua tana, Bush aveva marciato baldanzoso davanti alle telecamere per annunciare: ‟Tanti saluti, ci siamo sbarazzati di lei, signor Saddam Hussein, e il mondo per questo respira”. ‟Abbiamo trovato l’arma di distruzione di massa”, gli aveva fatto diligentemente eco da Roma il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e finalmente quell’attesa giornata di sole che le forze della coalizione improvvisata e cigolante aspettavano da mesi, sembrava splendere. Ancora per la uccisione di al-Zarqawi, descritto da tutte le fonti ufficiali americane come il generalissimo del terrorismo, le campane della ‟svolta decisiva” erano state sciolte a vuoto. Non ora, invece, non con l’impiccagione di Saddam Hussein che neppure il più allucinato degli ideologi delle guerre come igiene della storia osa leggere come la fine della tragedia, al massimo come un possibile ‟inizio della fine”. Forse sono stati il raccapriccio, il disgusto, il brivido di quella pietà irreprensibie che le immagini dell’esecuzione anche di un uomo che pietà non conosceva provocano in chi le vede, a ispirare sobrietà e a consigliare di non ‟esultare”. Neppure la rete televisiva che funge da trombettiere della Casa Bianca, la Fox di Rubert Murdoch, ha osato spingere troppo il pedale sulle ‟spontanee manifestazioni di gioia” in Iraq, o sulle danze di 150 emigrati iracheni sciiti, dunque nemici giurati di Saddam, davanti alla principale moschea americana, a Dearborn, in Michigan, non mentre altre dozzine di innocenti venivano massacrati nel paese e altri quattro soldati Usa saltavano sulle mine. Troppa è l’angoscia che si è insinuata ormai stabilmente nelle crepe dei comunicati ottimistici, dei vuoti trionfalismi da bollettini ideologici, nei ‟piani per la vittoria” enunciati e poi abbandonati, perchè una nazione che sanguina figli ogni giorno (dicembre è già il mese più mortale del 2006 per i soldati al fronte), che ha da tempo votato alle urne e nei sondaggi contro i vaneggiamenti della ‟democrazia da esportare” possa gioire a San Silvestro per un settantenne strangolato in cantina da uomini mascherati, secondo un rituale medioevale. Ora persino tra i militari, che ancora lo scorso anno sostenevano la guerra con l’89% di consenso, serpeggia la delusione, e ‟Army Times”, rivela che per la prima volta una maggioranza degli uomini e delle donne in uniforme è contro la guerra e due su tre non credono più alla ‟vittoria”, qualunque cosa essa significhi, nei nuovi o nei prossimi piani di escalation che presto ascolteremo. È morta una marionetta criminale, spezzata e buttata via come altri errori strategici, ma se Saddam è morto, il ‟Vietnaq” come ormai comincia a essere chiamato con acre gioco di parole, rimane. ‟Molte scelte difficili e molti sacrifici ci attendono sulla strada che abbiamo davanti”, ha concluso onesto Bush che fingeva di dormire nel suo ranch mentre Bagdad gli consegnava, come da ordinazione, la testa del nemico di famiglia nella vendetta finale. Ma questo, l’America del quarto capodanno di guerra, lo aveva capito, e pagato, molto prima di lui.

Vittorio Zucconi

Vittorio Zucconi (1944-2019), giornalista e scrittore, è stato condirettore di repubblica.it e direttore di Radio Capital, dove ha condotto TG Zero. Dopo aver cominciato nel 1963 come cronista precario a …