Giorgio Bocca: Era meglio il Prodi della porta accanto

03 Gennaio 2007
Il primo segno che l'antifascismo saliva nel Paese furono i fischi che si alzavano nei cinematografi quando il duce e i suoi gerarchi apparivano nei giornali Luce, segni di una insofferenza diffusa che trovava il coraggio di manifestarsi nel buio delle sale.
I fischi e gli insulti a Prodi al Motor Show di Bologna sono qualcosa del genere, l'insofferenza della gente per la democrazia televisiva dei mezzibusti, della miriade di rappresentanti che pensano di contare se la loro immagine appare sugli schermi .
Anche Romano Prodi, il professore modesto e schivo di un tempo, è caduto nella tentazione o nella necessità di apparire il più frequente possibile in casa o per strada, in Italia o all'estero, nelle sinagoghe o in Vaticano, in bicicletta o in tight sul piccolo schermo.
Per la sua seconda esperienza di governo Prodi ha pensato bene di cambiare modi e approccio. Non più il signore della porta accanto, alla buona, semplice di modi ma di cervello fino, dall'accento provinciale, più amico del buon senso che delle astuzie e dei raggiri e, consigliato probabilmente da qualche guru delle televisioni americane, si è trasformato in un tecnocrate che medita ogni parola, la pronuncia lenta come una sentenza oracolare e la accompagna con gesti lineari delle mani.
Quel che si può dire in materia è che gli è mancato un amico che lo avvisasse degli aspetti fastidiosi del mutamento. Ma parlar lento e cattedratico o spedito e alla buona non cambia quando la gente è presa dalla frenesia della protesta, niente le va bene ed è di nuovo pronta a ogni rischio e avventura.
Gli operai dei Cobas che a Mirafiori fischiano i dirigenti sindacali ricordano un po', sia pure alla lontana, la demenza di quelli che per ordine di Stalin combattevano il socialfascismo, cioè il socialismo democratico.
Prodi ci ha deluso? Al contrario: siamo convinti che non abbiamo oggi un governante migliore di lui, ma si fa sempre più forte la convinzione che in questo periodo dannato governare un paese come l'Italia sia non solo inutile, come diceva Mussolini, ma impossibile.
Prendiamo la politica estera: abbiamo appena scampato per il rotto della cuffia una nuova tragedia coloniale del tipo di Adua, il nostro presidio armato, la nostra occupazione armata della provincia di Nassiriya sono finiti senza che avvenisse una strage dei nostri soldati trincerati in un campo armato e circondati da migliaia di ribelli pronti a immolarsi. Ce la siamo cavata come già altre volte al modico prezzo di abbandonare una parte del materiale.
Ma qual è il nuovo corso? Che ci siamo affrettati a mandare un altro corpo di spedizione al rischio estremo del Libano, cioè di un Paese in cui la ribellione islamista dispone di milioni di seguaci. E come se non bastasse, tutto l'apparato informativo e propagandistico è impegnato a dimostrare e a celebrare una palese contraddizione, un palese non senso, che cioè la nostra spedizione in Iraq era pacifica e non di guerra, che eravamo lì non per assecondare gli interessi militari ed economici degli Stati Uniti e dell'Occidente, ma per ricostruire il Paese ed esportare la democrazia. E invece di tacere sul pericolo scampato è tutto un fiorire di cerimonie televedibili in cui le truppe sfilano, le bandiere garriscono, le autorità presenziano e festeggiano.
Durante la guerra fascista i tanto criticati uffici storici delle forze armate curarono delle memorie da cui è stato possibile ricostruire ciò che accadde nel nostro esercito, nella marina, nell'aviazione. Adesso del battaglione alpino mandato e ritirato non si sa quando e come dall'Afghanistan non si sa niente, scomparso nel nulla.

Giorgio Bocca

Giorgio Bocca (Cuneo, 1920 - Milano, 2011) è stato tra i giornalisti italiani più noti e importanti. Ha ricevuto il premio Ilaria Alpi alla carriera nel 2008. Feltrinelli ha pubblicato …