Umberto Galimberti: Il rito domenicale della violenza

05 Febbraio 2007
A Catania hanno ucciso un poliziotto e altri ne hanno feriti. Chi? I facinorosi da stadio. Quelli che ogni domenica in qualche città italiana, con una cadenza ormai rituale, sono soliti provocare incidenti, guerriglie neppure tanto simulate, con i loro passamontagna calati, perché la violenza è codarda, coi loro fumogeni che annebbiano l’ambiente per garantire impunità, le loro sassaiole che piovono come grandine da tutte le parti in modo che non ti puoi difendere, con i petardi, che quando non spaventano, feriscono, con le loro sassaiole e le loro bombe carta che, come a Catania, uccidono.
Qui i colori politici sono irrilevanti, perché il calcio si è sempre definito, con un po’ di ipocrisia, ‟politicamente neutrale”, e questa neutralità apre le porte al piacere dell’eccesso, allo sconfinamento dell’eccitazione, al rituale ripetuto della messa in scena, alla festa del massacro, alla socievolezza dell’assassinio, al lavoro di gruppo dei complici, alla pianificazione della crudeltà, alla risata di scherno sul dolore della vittima, dove la freddezza del calcolo è inscindibilmente intrecciata alla furia del sangue, la noia dello spirito alla bestialità umana.
Finito il rito della crudeltà tutti spariscono, e solo le registrazioni delle telecamere consentono di individuare qualcuno di quei pavidi che si nascondono nella massa per i loro gesti di violenza. Si sentono innocenti, semplicemente perché non sono in grado di fornire uno straccio di giustificazione ai loro gesti. L’ignoranza e l’ottusità che li caratterizza sono, ai loro occhi, un’attenuante. L’analfabetismo mentale, verbale ed emotivo con cui rispondono a chi li interroga sono per loro una giustificazione.
La loro violenza è cieca perché è assurda, ed assurda perché non è neppure un mezzo per raggiungere uno scopo. È puro scatenamento di forza che non si sa come impiegare, e perciò si sfoga nell’anonimato di massa, senza considerazione e senza calcolo delle conseguenze. La mancanza di scopi rende la violenza infondata, e quindi assoluta. Ma proprio nel momento in cui la violenza è libera da qualsiasi considerazione e da qualsiasi scopo, e quindi da qualsiasi razionalità, la violenza diventa completamente se stessa e si trasforma in pura e sfrenata crudeltà.
Le pene miti finora inflitte ai violenti, come ad esempio l’interdizione a frequentare gli stadi o i patteggiamenti, abituano progressivamente a ripetere, con la cadenza del rito, ciò che all’inizio era solo un fatto isolato. È come aprire una chiusa. E siccome il primo gesto è rimasto, senza particolari conseguenze, dopo che il divieto era stato violato, il percorso è libero. Tutto diventa possibile. Al primo atto ne segue un secondo, e poi un terzo, e infine ogni volta che c’è una partita di calcio. E così la violenza si ritualizza.
Si ritualizza secondo quel meccanismo che Freud ci ha spiegato là dove scrive che la violenza, latente nell’inconscio individuale di ciascuno di noi, diventa manifesta nell’inconscio collettivo di massa, dove la responsabilità individuale diventa difficile da identificare e l’impunità generale diventa un salvacondotto per gesti più esecrati e senza motivazione, perché la violenza assoluta è autosufficiente.
E allora l’orgia della crudeltà si ripete con la monotona regolarità con cui si succedono i sabati e le domeniche di campionato. E nel rito i tifosi più scalmanati agiscono secondo routine. E siccome la routine annoia, come i drogati, anche i criminali da stadio hanno bisogno di dosi sempre più forti, per allontanare la noia sempre incombente. La violenza da stadio, infatti, non ha creatività e lascia poco spazio alla fantasia. E dal momento che è ripetitiva e qualitativamente identica, l’unica variazione può essere solo quantitativa, e perciò ogni volta si aumenta la dose e, con la dose, l’euforia di un incontrollato sconfinamento di sé, di una sovranità illimitata e di un’assoluta libertà dal peso della morale e del vincolo sociale.
Siccome la violenza da stadio è ormai rituale, bisogna assolutamente interrompere il rito delle partite di calcio, a cui la ritualità della violenza si aggancia. Bisogna interrompere il rito di quegli agitatori televisivi che ogni lunedì, martedì e mercoledì, sulle reti pubbliche e private, aizzano gli animi, scambiando la passione per il calcio con una non troppo celata istigazione all’eccesso, perché se loro per primi autoeliminano i freni inibitori, cosa possiamo pretendere da chi ne dispone di molto limitati, come sono quegli analfabeti mentali ed emotivi che frequentano gli stadi per scatenare la violenza, essendo la violenza l’unica cosa di cui dispongono per sentirsi vivi? E perciò infliggono morte.
La caratteristica rituale della violenza da stadio rende questa violenza diversa dall’insurrezione o dal tumulto che, avendo di mira uno scopo, si placa quando lo scopo è raggiunto. Proprio perché è senza scopo, non c’è altro modo di interrompere questo tipo di violenza se non interrompendo il rito. Il rito delle domeniche di calcio a cui la violenza da stadio si è abitualmente legata. Spiace per gli sportivi non violenti, che peraltro già hanno qualche difficoltà a frequentare gli stadi, ma se non vogliamo diventare complici di questa immotivata e perciò ancora più assurda violenza, tutti dobbiamo concorrere, anche con qualche sacrificio, a interrompere la crudeltà di questo rito.

Umberto Galimberti

Umberto Galimberti, nato a Monza nel 1942, è stato dal 1976 professore incaricato di Antropologia Culturale e dal 1983 professore associato di Filosofia della Storia. Dal 1999 è professore ordinario …