Ryszard Kapuscinski. Il reporter e il mito

12 Febbraio 2007
Il suo sogno di ragazzo era fare il calciatore, diventare il portiere della nazionale polacca. Invece è diventa il più famoso reporter di guerra del mondo, l’instancabile viaggiatore che per oltre quarant’anni ha percorso i continenti per raccontare i conflitti più remoti e dimenticati. Ma è stato soprattutto il testimone del suo tempo, il cronista che ha dato voce agli ultimi della scala sociale e ai disperati della Terra, che ha fatto conoscere i popoli più lontani dell’Africa e dell’Asia, che ha descritto le ex repubbliche sovietiche in un memorabile libro, (Imperium) scritto l’anno seguente la caduta del Muro di Berlino. Gli sarebbe piaciuto, nonostante la sua proverbiale modestia, essere considerato l’Erodoto contemporaneo, il viaggiatore-scrittore-guerriero greco che fu tra i primi cronisti dell’antichità nel quinto secolo avanti Cristo. Non a caso gli ha dedicato l’ultimo suo saggio (In viaggio con Erodoto, 2004) perché considerava il greco di Alicarnasso non uno storico, ma il primo vero reporter della storia. Ryszard Kapuscinski, invece, è l’inventore del reportage moderno, un genere di letteratura difficile e praticato da pochissimi scrittori e giornalisti, in cui cronaca e narrazione si fondono per raccontare una storia, un personaggio, un paese o un avvenimento. Kapuscinski è morto il 24 gennaio in un ospedale di Varsavia, la città dove aveva casa e che considerava il rifugio tra un viaggio e l’altro. Aveva 74 anni, ucciso da un tumore. Con lui se n’è andato un grande reporter, un mito del giornalismo mondiale, sicuramente uno degli ultimi che svolgevano questa professione con lo spirito del missionario. Reporter come Kapuscinski ne sono rimasti pochissimi, perché nel contempo è cambiato il modo di fare giornalismo. Nell’era di Internet e della Cnn il ruolo degli inviati è stato ridimensionato e trasformato dalle regole dei network americani. L’imperativo dei media è dare la notizia subito e per primi. L’approfondimento, capire le ragioni di una vicenda, descrivere cosa c’è dietro i fatti, sono elementi che passano in secondo piano o proprio non interessano, erano il pane per i reportage del giornalista polacco. ‟Oggi - spiegava Kapuscinski - non si inseguono più gli eventi, ma i colleghi. Nell’ambiente dei corrispondenti esteri ci si muove non solo in base ai fatti storici in atto ma anche a seconda di come si comportano gli altri media. Ad un certo punto i media si precipitano in massa in Ruanda e tutti corrono lì, dimenticandosi degli altri avvenimenti che quindi spariscono dai giornali. In Africa nel contempo sono accaduti fatti importanti che il mondo non verrà mai a sapere perché non c’era nes-suno a registrarli”. Tranne lui, il polacco irriducibile, che andava a scovare le guerre dimenticate in ogni angolo spuntasse un focolaio o una storia da raccontare. ‟Oggi - si lamentava - non ci sono più giovani reporter che girano alla ricerca di una storia, solo per la passione di essere sul posto quando scoppia un conflitto o una catastrofe”. ‟La curiosità del mondo che anima il reporter - diceva Kapuscinski - è una questione di carattere. Ci sono persone non interessate al resto del mondo: quello in cui vivono è per loro il mondo intero. Una posizione rispettabile come qualunque altra. Confucio sosteneva che il modo migliore per conoscere il mondo è quello di non uscire mai di casa perché si può viaggiare all’interno della propria anima. Il concetto di viaggio è quanto mai elastico e differenziato. Ma ci sono persone come me che, per loro natura, devono conoscere il mondo in tutta la sua varietà. Non sono numerose”. Secondo le statistiche il 95 per cento parte per riposarsi, certi viaggi nascono per motivi di lavoro o per necessità. ‟Per me - spiegava lo scrittore - il viaggio più prezioso è quello del reportage, il viaggio etnografico o antropologico intrapreso per conoscere i luoghi, la storia i cambiamenti avvenuti, in modo da trasmettere agli altri le informazioni acquisite. Sono viaggi che richiedono concentrazione e attenzione, ma che mi permettono di capire i paesi e le leggi che li regolano”. Ecco, in questi pochi concetti Kapuscinski riassume la sua concezione della vita e del mestiere che ha praticato dal dopo guerra sino a quando le gambe lo hanno retto. Sì, perché contrariamente ai colleghi americani ed europei lui, polacco pove ro dell’agenzia statale Pap, viaggiava con i mezzi locali, sulle corriere sgangherate, treni affollati, i camion dei contadini. E quando non c’erano, come nei paesi dell’Africa equatoriale o nei deserti dell’Asia, allora andava a piedi. Il suo bagaglio era sempre leggero: l’inseparabile macchina fotografica (è stato anche un ottimo fotoreporter), il taccuino dove annotava ogni cosa e scriveva i suoi articoli a penna, e quanti più libri poteva insaccare nella borsa. Tutto qui, non gli serviva altro. ‟Ho sempre avuto una mania per i libri, vivo circondato dai libri e nei miei viaggi mi portavo dietro Le Storie di Erodoto: per il mio lavoro fondamentale è leggere tutto quanto è possibile sui luoghi che vai a visitare perché devi fare un confronto, devi capire, devi conoscere la storia”. L’autore di Imperium e de Il Negus, oltre a scrivere un fiume di articoli, saggi e tanti libri, ha lasciato innumerevoli interviste che ‟se ammucchiate una sopra l’altra, ne verrebbe fuori un edificio visibile sulla luna” scrive Krystyna Straczek. La giornalista polacca ha raccolto una massa enorme di fogli con interviste, conversazioni e reportage sul tema del giornalismo. Basterebbe estrapolarne una decina: sono i suoi libri ‟potenziali”, ‟inesistenti”. Ma a chi può interessare di tradurre e leggere tutta quella roba? si domandò Kapuscinski. Lo scrittore non ha avuto il tempo per altri saggi, ma da un migliaio di dattiloscritti Krystyna Straczek ha selezionato i più significativi testi per farne una sorta di libro-testamento: Autoritratto di un reporter. Ne è uscita un’intervista-fiume di cento pagine sul tema della professione, ma anche un’insolita testimonianza sulla sua stessa persona. Kapuscinski racconta la passione per i viaggi, la necessità di rischiare la vita per dei valori superiori, la solitudine e la paura che accompagnano i reporter (lui è stato testimone di 27 guerre). E anche le difficoltà di scrivere e inviare i pezzi: ‟I miei colleghi americani potevano trasmettere gli articoli come e quando volevano, io invece avevo un misero rimborso a parola dall’agenzia Pap. Quindi ero costretto a inviare telex al massimo di duecento parole. Sempre che riuscissi a trovare un ufficio postale nelle zone di guerra o nel deserto!”. Da qui il suo linguaggio asciutto e concreto, poche frasi fulminanti per descrivere un massacro etnico tra tribù del Congo o una carestia nel Sahel assetato. Per chi lo ha conosciuto di persona Kapuscinski poteva sorprendere per l’aspetto dimesso, bassetto, testa pelata, vestito come un operaio polacco con camicia scozzese di lana pesante e jeans consumati. Ben lontano dalla cinematografica presenza degli inviati speciali americani. Eppure quella figura modesta nascondeva un uomo dalla forza eccezionale, instancabile anche quando era malato. ‟Un uomo - sottolinea la Straczek - la cui infanzia è stata segnata dall’esilio, dal freddo e dalla fame e la cui vita non gli aveva risparmiato dispiaceri”. A lui, che voleva diventare un calciatore, è toccata la sorte di una vita avventurosa con un solo credo: ‟descrivere avvenimenti autentici e persone autentiche, usando le forme e lo stile di quella che noi chiamiamo narrativa e gli americani fiction”. In una parola: il grande reportage.

Ryszard Kapuściński

Ryszard Kapuściński è nato a Pinsk, in Polonia orientale, oggi Bielorussia, nel 1932, ed è morto a Varsavia nel 2007. Dopo gli studi a Varsavia ha lavorato fino al 1981 …