Umberto Galimberti: Milano e le pietre al posto del cuore. Ecco come siamo cambiati

20 Febbraio 2007
Una volta si diceva che "Milano ha il cuore in mano". Oggi, a giudicare dal comportamento che un quartiere di Milano ha riservato ai rom, bisognerebbe dire che, in mano, Milano non ha il cuore, ma le pietre. Perché siamo così cambiati? Che cosa ha indurito il nostro cuore? Di che cosa abbiamo paura? Anche se non lo ammettiamo, inconsciamente abbiamo paura della globalizzazione economica, la quale detta le leggi del mondo a partire da quell’unico valore che è il denaro, il quale, avendo una libertà di circolazione trans-territoriale, misconosce territori, confini e frontiere che, insieme alla legge, sono stati fino ad oggi le maggiori garanzie di sicurezza. Infatti, là dove vige solo la legge del denaro, il territorio, che è poi il deposito di quegli usi, costumi e tradizioni che rendono fiduciario il rapporto fra gli uomini, rischia di sfaldarsi e, nonostante il controllo delle forze dell’ordine, le misure di sicurezza, il porto d’armi, si teme che detto rapporto non tenga più. E questo non perché sono arrivati i rom, gli albanesi, i kosovari, gli slavi, i curdi, i nigeriani, ma perché il risvolto negativo della globalizzazione economica è la de-territorializzazione umana. Di questo abbiamo paura. E anche se a livello conscio non sempre sappiamo individuarne la ragione, inconsciamente avvertiamo che questa è la vera causa della nostra inquietudine, perché la de-territorializzazione, richiesta dai processi di globalizzazione, rende il territorio incerto, e non fiduciario il rapporto umano. Ora, siccome la globalizzazione concepisce le città come semplici luoghi di scambi, più che come luoghi di abitazione e di radicamento, nasce la percezione diffusa che siamo solo all’inizio di quel processo irreversibile che traduce le grandi città in agglomerati di sconosciuti, senza più quel tessuto sociale che creava un rapporto fiduciario fra gli abitanti del territorio, i quali, se anche non si conoscevano, sapevano di sottostare a quella legge non scritta che era l’uso e il costume degli abitanti di quella città. Quando il denaro diventa l’unico vincolo di convivenza di quegli agglomerati di varia umanità che, senza più usi, costumi e tradizioni comuni, solo per pigrizia mentale continuiamo a chiamare "città", allora è davvero giunto il momento di individuare le vere cause della nostra paura, che sono più complesse di quelle elementari che la gente invoca, quando chiede di chiudere le carceri con dieci mandate e blindare i confini all’insegna del "fuori l’immigrato". Ma credono davvero costoro che gli affamati della terra, affamati un po’per la loro arretratezza e un po’per colpa nostra, accettino tranquillamente di morire nelle loro terre di fame e di guerra per rendere più tranquilla la nostra sicurezza? Riescono davvero a pensare queste cose i rappresentanti politici delle diverse formazioni, o si limitano a urlarle nelle loro manifestazioni che avvengono in giorni diversi per non confondere le bandiere e i voti? E allora invece di cacciare dal loro accampamento i rom, che da secoli si muovono senza riconoscersi in alcun territorio, dovremmo imparare da loro che forse anche noi siamo entrati in un’epoca che segna la fine dell’”uomo del territorio”, a cui la legge fornisce gli argini della sua intrinseca debolezza, e la nascita dell’uomo sempre meno soggetto agli usi e costumi del suo paese e sempre più costretto a fare appello a valori che trascendono la garanzia della consuetudine. Il prossimo, sempre meno specchio di me, e sempre più altro, obbligherà tutti a fare i conti con la differenza, come un giorno, ormai lontano nel tempo, siamo stati costretti a farli con il territorio e la proprietà. La diversità sarà il terreno su cui far crescere le decisioni etiche, mentre le leggi del territorio si attorciglieranno come i rami secchi di un albero inaridito. Fine dell’uomo come l’abbiamo conosciuto sotto il rivestimento della proprietà, del confine e della consuetudine, e nascita di quell’uomo più difficile da identificare se non si inventa un’etica più alta di quella da cui finora gli ‟uomini del territorio” erano stati governati. Alla radice, il problema è questo. E siccome mi pare un problema molto serio, incontriamoci martedì 20 febbraio alla Sala della Provincia di via Corridoni per discuterne e, se possibile, diventarne consapevoli, perché non c’è modo di estirpare la violenza se il regime è quello dell’ignoranza.

Umberto Galimberti

Umberto Galimberti, nato a Monza nel 1942, è stato dal 1976 professore incaricato di Antropologia Culturale e dal 1983 professore associato di Filosofia della Storia. Dal 1999 è professore ordinario …