Addio Kurt Vonnegut, esorcista dell’orrore

16 Aprile 2007
Tanti anni fa, quando uscì Ghiaccio nove, che è del 1963 e che diventò subito un libro di culto tra i giovani contestatori delle Università statunitensi, fu un grande critico eterodosso, tra i più grandi dello scorso secolo, Leslie Fiedler, a dare a Vonnegut la patente di grande scrittore che si meritava amplissimamente e che gli era negata perché veniva dalla fantascienza, perché scriveva di fantascienza (in Italia, ci provò Oreste Del Buono, ma ci riuscì soltanto quando venne, alla fine degli anni 70, validamente spalleggiato da Stefano Benni, da Grazia Cherchi e dal sottoscritto). Ebbene, Fiedler usò una formula perfetta per definire la letteratura di Kurt Vonnegut: parlò di ‟divina idiozia”. Più tardi, con la pubblicazione nel ’69 di Mattatoio n. 5 ovvero La crociata dei bambini, Vonnegut veniva riconosciuto da tutti come uno dei maggiori scrittori americani del suo tempo, a cavallo tra il ‟genere” , di cui è stato con Philip K. Dick e J.G. Ballard il più grande rappresentante, e il romanzo post-moderno, tra narrativa e saggistica, tra tragico e comico, tra Europa (la sua famiglia era di solida origine tedesca) e Usa. La ‟divina idiozia” di cui parlava Fiedler è il prodotto di molte influenze: dei grandi della fantascienza come Orwell e Huxley, ma anche dei grandi fustigatori settecenteschi di costumi del Settecento inglese come Jonathan Swift e dei grandi conversatori e commentatori americani dell’Ottocento come Mark Twain. Twain con i suoi personaggi alla ‟Wilson lo zuccone”, persone comuni talvolta anche un po’ tonte, ma che vedono quello che gli intellettuali non sanno vedere. In Mattatoio n. 5, che resta il romanzo più celebre di Vonnegut, l’uomo comune – alter ego dell’autore – si chiamava Billy Pilgrim, cioè il Pellegrino come nelle sacre rappresentazioni medioevali e nelle parabole dei puritani, ed è stato sul pianeta Tralfamadore e viaggia nel tempo, ma soprattutto è sopravvissuto al bombardamento americano di Dresda che nel 1945 fece più morti che Hiroshima. Vonnegut era davvero a Dresda, prigioniero di guerra dei tedeschi, ed è davvero sopravvissuto a quel bombardamento, l’evento centrale della sua esistenza, e la sua scommessa di scrittore è stata di raccontare l’irraccontabile, mescolando però generi e stili letterari, il reale e il fantastico, il presente e il passato, il probabile e l’improbabile. Insomma, quel che Vonnegut è riuscito a fare grazie alla sua ‟divina idiozia” è stato di elaborare un modo di narrare l’orrore della storia allo stesso tempo esorcizzando e divertendo, con i modi della comicità e dell’ironia. Ciacolando, prendendo e prendendosi in giro, e facendo quando necessario la persona serissima, ma con estrema libertà sempre, tenendo sempre sveglio il suo lettore con il pungolo dell’invenzione e della bizzarria, ma anche con il costante richiamo ai problemi più seri e più profondi, storici e attuali. O a quelli del dopo, del futuro di dopo le incombenti catastrofi. In romanzi come Madre notte (sul nazismo) o Il grande tiratore (su Hitler, tra l’altro), come La colazione dei campioni o Comica finale (dedicato a due suoi sublimi maestri di ‟divina idiozia”, Ollio e Stanlio!), come Perle ai porci e Un pezzo da galera e come Galapagos, o nei saggi e negli interventi che fino all’ultimo ha scritto o detto al telefono per una piccola radio libera di giovani newyorkesi (interviste fatte ‟nell’aldilà” a personaggi sia storici che sconosciuti!) – ora tutti riediti in Italia da Feltrinelli ma editi in prima istanza da Rizzoli, Mondadori, Bompiani, Eleuthera, e/o – Vonnegut, tra i pochi pensatori davvero liberi del suo tempo in grado di parlare con tutti, ci ha lasciato un commento paradossale e saggissimo alle storture della società e della storia americana. E di ogni società organizzata.

Kurt Vonnegut

Kurt Vonnegut (Indianapolis, 1922 - New York, 2007) nacque in una famiglia colpita dalla Grande Depressione del ’29. Nel 1940 si iscrisse a biochimica all’università, poi andò sotto le armi …