Isabel Allende: “Narrare per me è un’esperienza totale. Mi ha permesso di esorcizzare i miei demoni”

14 Maggio 2007
Il vizio di raccontare si è manifestato molto presto nella mia vita. Avevo appena imparato a parlare, e già torturavo i miei due fratelli con racconti del terrore che popolavano di sgomento le loro giornate e di incubi i loro sonni. Ricordo una scena nella camera che condividevamo: la lampada è spenta e l’unica luce viene dal corridoio, filtrando attraverso la porta socchiusa; i miei fratelli sono seduti sul letto, pallidi e tremanti, con gli occhi fuori dalle orbite, mentre io sto raccontando loro una storia di fantasmi. La casa del nonno, dove vivevamo, era grande e buia, perfetta per evocare gli spettri. Tempo dopo, i miei figli hanno dovuto sopportare il medesimo supplizio. Nella vita adulta, invece, i racconti mi sono tornati utili per sedurre gli uomini: non c’è niente di più sensuale di una storia narrata con passione tra lenzuola fresche di stiratura.
Parecchi anni fa la vecchia casa dei miei nonni a Santiago venne demolita e al suo posto furono costruiti palazzoni moderni che ora non riesco a distinguere tra le centinaia di edifici simili. Un bel giorno i macchinari del progresso si presentarono con il compito di radere al suolo la dimora di mattoni crudi dov’era nata mia madre. Per settimane intere osservammo quegli implacabili dinosauri di ferro spianare il mondo con le loro zampe dentate e, quando infine si depositò il polverone da carovana di beduini che avevano sollevato, scoprimmo con stupore che sullo spiazzo si ergevano ancora, intatte, le palme piantate da un lontano bisnonno appassionato di botanica. Attendevano la loro fine solitarie, nude, con le chiome avvizzite e un’aria remissiva. Ma al posto del temuto boia apparvero degli operai sudati, muniti di pale e picconi, che, come formiche laboriose, scavarono delle trincee attorno a ogni albero fino a estirparlo dal suolo. Vedemmo le loro sottili radici, intrecciate come merletti e aggrappate a manciate di terra secca. Quei giganti feriti vennero trasportati dalle gru in un altro luogo, dove vennero deposti in profonde cavità già predisposte. I tronchi gemettero sordi, le foglie caddero in sfilacciature gialle e a lungo credemmo che nulla avrebbe potuto evitare loro tanta agonia. Ma sono creature tenaci. Una lenta ribellione sotterranea iniziò a propagare la vita e i tentacoli vegetali si aprirono un varco, mescolando la terra antica con quella nuova. Puntuale arrivò la primavera e le palme risorsero, agitando le loro parrucche e dondolando i fianchi, vive e rinnovate, malgrado tutto. Il ricordo di quegli alberi della casa di mio nonno mi torna spesso in mente quando penso al mio destino. Sono un’eterna esiliata. La mia sorte mi costringe a muovermi da un luogo all’altro, adattarmi e sopravvivere. E riesco a farcela perché le mie radici, come quelle delle palme, si aggrappano ancora a manciate della mia terra. Il Cile, il mio paese inventato, il paese dei ricordi e dell’immaginazione, viaggia insieme a me. è da più di trent’anni che non vivo in Cile: la mia famiglia e la mia casa si trovano nel Nord della California, ma la mia ispirazione letteraria nasce e si nutre sul suolo cileno. Diversi miei libri sono ambientati in luoghi geografici molto distanti tra loro: la California, il Venezuela, Barcellona, l’Amazzonia, l’Himalaya, l’Africa e persino la Cina, ma il bisogno di narrare viene dalla mia infanzia in Cile.
Sono cresciuta in una casa dalle pareti ricoperte da scaffali di libri. I libri si riproducevano in modo misterioso, si moltiplicavano come una meravigliosa giungla di carta stampata. Di notte, dal letto, mi sembrava di poter sentire i personaggi che fuggivano dalle pagine per vagare nelle stanze buie. Cavalieri, donzelle, streghe, pirati, banditi, santi e cortigiane riempivano l’aria con le loro avventure. Un mattino, poco prima dell’alba, durante uno dei nostri famosi terremoti, gli scaffali crollarono a terra con un terribile fracasso. Spaventata, compresi che i personaggi non avrebbero potuto ritrovare la via del ritorno alle loro pagine e si sarebbero visti obbligati a cercare rifugio nel primo volume a portata di mano. Riuscite a immaginarvi quale confusione e caos, e che disastro per il tempo e lo spazio letterario? Da allora mi perseguita l’immagine di quei personaggi esiliati dai loro libri. A volte immagino che quegli esseri smarriti si rivolgano a me perché scriva una storia in cui finalmente possano ritornare a sentirsi a proprio agio.
La scrittura per me è un disperato tentativo di preservare la memoria. I ricordi restano per le strade, come brandelli lacerati del mio vestito. Scrivo perché l’oblio non mi sconfigga. Ogni giorno, quando mi siedo davanti allo schermo vuoto del mio computer, chiudo un momento gli occhi e torno alla casa in cui sono cresciuta, allo spagnolo della mia infanzia, con il suo accento cileno, alle donne straordinarie che mi hanno guidato: la nonna, che mi insegnò a leggere i sogni, mia madre, che ancora oggi mi obbliga a guardare gli eventi a posteriori e la gente da dentro; le vecchie domestiche che mi trasmisero miti e leggende popolari e mi iniziarono al vizio dei romanzi radiofonici; le mie amiche femministe che negli anni sessanta e settanta cospiravano per cambiare il mondo; le giornaliste che mi offrirono le chiavi del mestiere. Grazie a loro ho imparato che la scrittura non è fine a se stessa, ma un mezzo per comunicare. Cos’è un libro prima che qualcuno lo apra e lo legga? Solo un fascio di fogli cuciti su un lato... Sono i lettori a infondergli l’alito di vita.
Quasi tutti i miei libri prendono l’abbrivio da un’impressione o da un’emozione profonda che mi hanno accompagnato a lungo. Dopo il golpe militare del 1973, che mise fine in Cile a un lungo percorso democratico e durante il quale morì il presidente Salvador Allende, me ne andai con la mia famiglia in Venezuela. L’8 gennaio del 1981 ricevetti da Santiago una brutta notizia: il mio eccezionale nonno, che aveva ormai quasi cent’anni, era agonizzante. Quella notte mi sistemai nella cucina del nostro appartamento con la macchina da scrivere portatile e iniziai una lettera per quel nonno leggendario, una lettera spirituale che certamente non avrebbe avuto modo di leggere. La prima frase la scrissi in trance. Le dita volarono sulla tastiera e prima di riuscire a rendermene conto potei leggere: ‟Barrabas arrivò in famiglia per via mare”. Chi era questo Barrabas e perché era arrivato via mare? Cosa c’entrava Barrabas con una lettera d’addio a mio nonno? Ancora non ne avevo idea, ma, con la fiducia degli ignoranti, continuai a scrivere senza posa. A quell’epoca svolgevo due turni di lavoro in una scuola, dodici ore al giorno, ma le notti erano mie. Dopo cena mi rinchiudevo a scrivere, senza fatica, senza pensare. Mio nonno morì e io continuai a scrivere. Nel giro di un anno sul tavolo di cucina c’erano cinquecento pagine; non era più una lettera, era un libro. Dall’esilio, avevo voluto ritrovare il mio paese, resuscitare i morti, riunire i dispersi. La nostalgia per il Cile, la mia patria ai piedi del mondo, generò La casa degli spiriti. Il Barrabas arrivato via mare e gli altri personaggi di quel primo romanzo cambiarono il mio destino, mi iniziarono al mondo senza ritorno della letteratura. Sono passati esattamente venticinque anni dalla pubblicazione di quel libro e da allora ne ho scritti diciassette, tradotti in molte lingue: posso dire in tutta serenità di aver trovato la mia vocazione. Sono stata molto fortunata.
I miei libri non nascono nella mente, crescono nel ventre. Non scelgo l’argomento, è lui a scegliere me. Il mio lavoro consiste nel dedicare alla scrittura tempo, silenzio e disciplina sufficienti affinché i personaggi prendano vita e arrivino a parlare da soli. Non li invento: so che vivono in una misteriosa dimensione, in attesa che qualcuno li faccia venire al mondo. Ogni 8 gennaio, quando comincio un nuovo libro, celebro una breve cerimonia per richiamare spiriti e muse, poi appoggio le dita sulla tastiera e lascio che la prima frase si scriva da sola, esattamente come accadde la prima volta. Non ho un progetto, non so che storia racconterò. Quella frase iniziale schiude una porta dalla quale mi affaccio timidamente al mondo in cui si trovano i personaggi, che a poco a poco cominceranno a rivelarsi con contorni più precisi, ognuno con la sua voce, il suo passato, il suo carattere, le sue manie e grandezze. Nel lento esercizio della scrittura quotidiana la storia si definisce in modo naturale.
Gli eventi e le persone conosciute nel viaggio della mia vita sono la mia fonte di ispirazione. Per questo cerco di vivere con passione, esponendomi a tutti i venti e senza temere gli inevitabili dolori. Le esperienze di oggi sono i miei ricordi di domani, saranno il mio passato, il sale della mia esistenza. Probabilmente se la mia vita fosse tranquilla e serena non saprei che cosa scrivere, ragion per cui cerco di viverla come se fosse un romanzo. Nella memoria conservo solamente avventure, amori, lutti, separazioni, canti e lacrime, sconfitte memorabili e successi inattesi; le inezie quotidiane non hanno spazio. Quando parlo del mio passato tendo a ricorrere a termini iperbolici. Racconto la mia vita con toni epici ed esagerati, a colori, su grande schermo. Il risultato è che ormai non so più distinguere, nella mia versione del passato, che proporzione abbia la memoria e quale l’immaginazione. Come dice mia nipote, ricordo ciò che non è mai successo. (...)
Credo di poter dire che il mio destino è stato avventuroso: sono sopravvissuta a tre rivoluzioni, a un’invasione dei marines americani in Libano, a quattro terremoti e a un golpe militare. Da ogni paese vengo cacciata da qualche catastrofe, come se la violenza mi stesse sempre alla calcagna. Quando nel 1987 mi innamorai di Willie, l’uomo che oggi è mio marito, e andai a vivere negli Stati Uniti, pensai che la ruota fosse girata e che finalmente avrei goduto di una certa stabilità, ma in questi anni mi è toccato un quinto terremoto, questa volta a San Francisco, un uragano in Florida e un altro ancora a New Orleans, una rapina a mano armata a Oakland, il famoso attacco terroristico a New York e un incendio nella zona in cui vivo che ha distrutto trecento case, per non contare i sei anni della disgraziata presidenza di George W. Bush. Ho parecchio materiale per scrivere.
Tuttavia, l’episodio più incredibile che mi capitò non fu un cataclisma politico o geologico. Alla fine degli anni Settanta lavoravo in Venezuela in una scuola per ragazzini pestiferi (credo che ora li definiscano bambini con disturbi d’apprendimento...). Un giorno una delle loro maestre era assente e mi mandarono in classe a sostituirla. Mi trovai rinchiusa in una stanza con venti selvaggi fuori controllo che saltavano e si picchiavano l’un l’altro. Ero sul punto di scappare, terrorizzata, quando entrò una signora grassa, che profumava di sapone, provvista di secchio e scopa. Immagino che fosse entrata per fare le pulizie, ma vista la situazione decise di intervenire e, senza alzare la voce, in tono tranquillo, disse: ‟C’era una volta...”. Immediatamente cessò lo schiamazzo e l’aria sembrò fermarsi. La donna ripeté quelle tre parole, ‟C’era una volta...” e li conquistò! I mostri si sedettero in assoluto silenzio non appena lei iniziò a raccontare una storia. Quella donna aveva il dono del raccontare. Non ricordo la storia, ma ricordo che rimasi catturata dalle sue parole, rapita dalla suspence, dal ritmo, dai personaggi e dall’argomento. Sedusse in egual misura sia me sia i venti ragazzini iperattivi. In ognuno dei miei libri cerco di ottenere esattamente questo effetto: afferrare il mio lettore per il collo e non mollarlo fino all’ultima riga.
‟C’era una volta...”. Sono parole magiche. Le storie hanno accompagnato l’umanità fin dall’inizio dei tempi. Alcune di loro, raccontate e riraccontate, descrivono il nostro viaggio attraverso la vita e la morte e si trasformano in miti: il Giardino dell’Eden, la Dea Madre, il Diluvio universale, gli eroi in cerca del Padre, la lotta tra il Bene e il Male, le gesta valorose, gli amori contrastati, i sacrifici necessari, le battaglie contro i draghi, anche della nostra stessa anima. I grandi temi si ripetono all’infinito, possiamo solo modularne nuove versioni, e quando li si ricrea con arte, rinascono con la forza della prima volta.
Noi latinoamericani proveniamo da una cultura di narratori. Il ruolo di chi narra è interpretare sogni, dissotterrare segreti e preservare storie. La tradizione orale è venuta meno, vinta dai mezzi moderni della comunicazione, e ha ceduto il passo a una solida tradizione letteraria; il narratore ormai non sale più su un palco tra le bancarelle nella piazza del mercato ad ammaliare il pubblico con le sue parole; ora scrive, ma la sua missione non è cambiata: interpreta sogni, dissotterra segreti, preserva storie. (...)
Non deve stupire che l’America Latina abbia prodotto tanta letteratura di così alto livello, dato che non mancano fonti di ispirazione. Cinquecento anni fa, quando spagnoli e portoghesi conquistarono questo vasto territorio, si verificò lo scontro violento tra le monarchie cristiane d’Europa e le culture americane, che in alcuni casi erano rappresentate da sofisticate teocrazie e in altri da popolazioni molto primitive, dedite perfino al cannibalismo. Le lettere che i conquistatori scrivevano parlavano di città di oro zecchino in cui i bambini giocavano con i diamanti, di fonti dell’eterna giovinezza, di esseri mitologici con un solo occhio in mezzo alla fronte e un piede così grande che, sollevato sopra la testa, poteva fare ombra durante l’ora della siesta. Quegli uomini che giunsero sulle orme di Cristoforo Colombo furono responsabili di uno dei più tremendi genocidi della storia. Milioni di indigeni morirono a causa delle malattie dei bianchi, a migliaia preferirono il suicidio alla schiavitù, intere popolazioni furono cancellate dalla faccia della Terra, città, templi e divinità sparirono nel fumo e nel terrore. I discendenti di quelle popolazioni umiliate sono ancora in cerca della propria identità nello specchio infranto della storia. Per cinque secoli tutte le razze del pianeta sono approdate sulle coste latinoamericane: schiavi neri, avventurieri e mercanti europei, rifugiati ebrei e asiatici, immigranti ed esiliati, eterne processioni di esseri umani in fuga da guerre, persecuzioni e povertà, o semplicemente alla ricerca di nuovi orizzonti di speranza. Sono arrivati con le loro tradizioni, le loro lingue, i loro ricordi e i loro dolori, si sono mescolati con la popolazione indigena in un abbraccio disperato di odio e amore, e così hanno dato origine a una popolazione segnata da un destino tragico e da un’immaginazione sfrenata, che trova la sua massima espressione in ciò che è stato definito "realismo magico". Il realismo magico è passato di moda in letteratura, i giovani scrittori lo aborriscono, ma continua a essere presente nella vita, così fitta di misteri: coincidenze, sogni, casualità, premonizioni, passioni e vizi che determinano il corso della storia, il potere della natura. (...) Mi piace il meticoloso lavoro di un romanzo lungo e complesso, e temo, invece, la sfida del racconto breve, un genere molto diverso. In un romanzo si crea un universo per aggregazione di particolari, come si tesse un arazzo dai molti colori; nel disegno si dissimulano i difetti e alla fine ciò che conta è l’impressione generale, il fascino dell’insieme. Un racconto, invece, è come una freccia. Lo scrittore ha a sua disposizione solo un tiro, sono necessarie mira precisa e velocità, tensione perfetta, il polso fermo dell’arciere. In un racconto non c’è né tempo né spazio per gli errori, si nota tutto. Se non ha il tono giusto fin dalla prima frase, è meglio lasciar perdere. Se si corregge molto si dilegua la brezza fresca che fa volare l’immaginazione del lettore. Per un romanzo c’è bisogno di pazienza, di tempo, di concentrazione e di un buon occhio per i particolari. Per un racconto sono necessarie ispirazione e una certa dose di fortuna. Non posso separare la mia vita dal mio lavoro di narratrice: sono strettamente annodati. Per me la vita prende corpo nella scrittura, ciò che non scrivo viene cancellato dal vento dell’oblio. Spesso non distinguo la realtà quotidiana dalla finzione che narro; sono convinta che tutto ciò che scrivo sia verità e se anche non lo è ora potrà esserlo domani. Senza dubbio la psichiatria dispone di un termine per definire tale atteggiamento, e forse se non scrivessi sarei in manicomio. Quando ero bambina venivo punita per le bugie che raccontavo e ora che vivo di queste bugie mi chiamano scrittrice. Dove sta la verità? Non lo so. Probabilmente esiste soltanto la verità poetica. (...) Raccontare per me è un’esperienza totale, come fare l’amore con l’amante perfetto. è sempre esaltante. Scrivere è stata la mia salvezza nelle circostanze tragiche della vita e il modo per festeggiare in quelle felici. La letteratura mi ha permesso di esorcizzare alcuni dei miei demoni e di trasformare in energia le mie sconfitte, i dolori e le perdite. Devo inventare pochissimo per i miei romanzi, perché la realtà è sempre più splendida di qualsiasi parto della mia immaginazione. Le mie antenne sono all’erta, pronte a captare in tutte le direzioni le voci dell’aria, i sussurri, i lamenti e le risate, i piccoli aneddoti così come le grandi avventure. Nel migliore dei casi, la letteratura cerca di dar voce a chi non l’ha o a chi è stato zittito, ma quando scrivo non miro a rappresentare qualcuno, né a cercare la trascendenza, a offrire un messaggio o a spiegare i misteri dell’universo; semplicemente cerco di raccontare una storia con il tono delle conversazioni familiari. Da quando ho iniziato a scrivere, un quarto di secolo fa, mi sono trasformata in una vorace cacciatrice di storie. Scrivo molto, scrivo sempre, perché so che non avrò abbastanza vita per raccontare tutto ciò che desidero raccontare. Pablo Neruda diede espressione all’anelito, certo un po’presuntuoso, ma anche straordinario, di voler far parte di ogni esperienza umana. Il poeta scrisse così: Non posso senza la vita vivere, senza l’uomo essere uomo e corro e vedo e odo e canto, le stelle non hanno niente da spartire con me, la solitudine non ha fiore né frutto. Datemi per la mia vita tutte le vite, datemi tutto il dolore di tutto il mondo, io lo trasformerò in speranza. Datemi tutte le gioie, anche le più segrete, perché se così non fosse, come si possono conoscere? Io devo raccontarle, datemi le lotte di ogni giorno perché sono il mio canto.

Traduzione di Elena Liverani

Isabel Allende

Isabel Allende è nata a Lima, in Perù, nel 1942, ma è vissuta in Cile fino al 1973 lavorando come giornalista. Dopo il golpe di Pinochet si è stabilita in …