Stefano Rodotà: La democrazia tra Piazza e Palazzo

16 Maggio 2007
Continua lo sconcertante duello tra società politica e società civile che va avanti dai tempi in cui grandi sommovimenti avviarono la nascita di quella che viene chiamata Seconda Repubblica.
Oggi si fronteggiano i fautori del referendum e i sostenitori della via parlamentare alla riforma elettorale.
Si fronteggiano gli entusiasti di "una testa, un voto" e i prudenti conservatori di tradizionali prerogative dei partiti; la Piazza e il Palazzo (così diceva già Guicciardini); e tornano gli appelli alla democrazia diretta nelle nuove forme rese possibili dalle nuove tecnologie, con inquietanti cadute nel populismo.
Ma in questo panorama di vogliosa partecipazione "dal basso" vi è un illustre assente. Se è giusto invocare "il popolo delle primarie", perché ignorare, con poche eccezioni, il ben più corposo "popolo del referendum costituzionale", i quindici milioni e settecentomila cittadini che il 25 e 26 giugno dell´anno scorso respinsero la riforma costituzionale voluta dal centro-destra?
Politicamente si è trattato di un fatto di grandissimo rilievo. L´atto più significativo compiuto dalla passata maggioranza venne respinto, è il caso di dirlo, a furor di popolo. E, se è comprensibile che i perdenti vogliano cancellare quella vicenda, sconcerta la perdita di memoria di chi si oppose con successo a quel disegno, trovando tra gli elettori un consenso persino inatteso.
Oggi questa memoria è importante, perché le discussioni sulla democrazia partecipativa e sulla legge elettorale si intrecciano con quelle riguardanti l´assetto generale delle istituzioni. È ovvio che la voce dei cittadini in un sistema ancora fondato sulla democrazia parlamentare abbia accenti assai diversi da quelli che compaiono quando si guarda piuttosto ad una democrazia d´investitura, alla scelta diretta del Presidente del consiglio. E allora, per evitare che anche le aperture verso un accresciuto potere dei cittadini diventino una delle tante esercitazioni di ingegneria istituzionale che hanno fatto già troppi danni, è necessario rispondere almeno a tre domande: quale dovrebbe essere il rapporto tra partecipazione e rappresentanza? Quale può essere l´utilizzazione migliore delle nuove tecnologie? Quali politiche sono necessarie perché la presenza dei cittadini possa essere continua e incisiva?
L´enfasi su referendum, primarie, "una testa, un voto" si comprende se si guarda all´intollerabile deriva oligarchica che attanaglia da anni il nostro sistema, che ha prodotto un familismo politico sempre più avido di poteri grandi e piccoli, che ha consegnato ad un numero ristrettissimo di persone il potere di stabilire la composizione del Parlamento. È vero che l´ultima degenerazione è figlia di una riforma elettorale che ha sommato cancellazione dei collegi uninominali e assenza delle preferenze. Ma è pure vero che gli effetti negativi sarebbero stati almeno attenuati se la scelta degli eletti (non più dei candidati) fosse stata affidata a strutture partitiche aperte e trasparenti. Proprio a questo fine tendono le proposte di rivoluzionare la selezione dei gruppi dirigenti con una ventata di partecipazione che vada al di là di chi è già iscritto ai partiti.
Vi è, in questa ipotesi, la speranza di una rigenerazione prodotta dalla semplice presenza di un numero di persone incomparabilmente maggiore di quello delle oligarchie centrali e delle loro riproduzioni locali. Ricordiamo, però, come venne sterilizzato il popolo delle primarie: nessuna oligarchia muore senza combattere. E un rinnovamento della democrazia dei partiti non può avvenire senza mettere in qualche modo in discussione la personalizzazione estrema della politica e senza una legge elettorale che affronti la questione della rappresentanza.
Siamo di fronte a due riduzionismi: il concentrarsi ossessivo dell´attenzione sulla sola investitura del leader; la considerazione del momento elettorale solo come scelta del governo, respingendo sullo sfondo la scelta da parte dei cittadini dei loro rappresentanti. Non è un vizio nuovo. Così, negli anni, è stata mortificata la politica, consegnata sempre più povera nelle mani di pochi. Di questo non vi è consapevolezza. A dispetto del risultato del referendum costituzionale si continua a proporre, in modo sfacciatamente palese o mascherato, la scelta diretta del capo del Governo: esattamente quello che il referendum aveva bocciato. Come parlare, allora, di attenzione per la volontà dei cittadini? E si insiste su un referendum elettorale che favorirebbe il permanere delle oligarchie, poiché obbligherebbe a coalizioni solo elettorali e manterrebbe le liste bloccate.
Si obietta che quel referendum è uno stimolo senza il quale nessuna riforma elettorale sarebbe possibile. Molti vivono di rendita su questo argomento, che sembra aver cancellato l´obbligo di riflettere su quel che davvero è avvenuto nel sistema politico italiano da una quindicina d´anni a questa parte. Si inneggia al bipolarismo come valore in sé, con una forma di idolatria istituzionale che non fa bene a nessuno e che preclude la possibilità di ammettere che si è creato un bipolarismo distruttivo, che ha favorito e continua a favorire fenomeni degenerativi gravi. Proprio i fautori del bipolarismo dovrebbero essere i primi a chiedere che di ciò si discuta, per evitare che si ricorra ancora alle ricette vecchie, che contrastano proprio le esigenze di rinnovamento. La democrazia d´investitura e la personalizzazione esasperata producono derive populistiche, che qualcuno potrà anche scambiare per allargamento della partecipazione, ma che in concreto finirebbero con il soffocare la nuova distribuzione del potere sociale e politico perseguita dai sostenitori di una più larga presenza dei cittadini.
La scissione tra partecipazione e rappresentanza sta già producendo uno spostamento della capacità rappresentativa verso modalità e luoghi che mettono in discussione non le forme invecchiate della democrazia rappresentativa, ma la stessa logica democratica. Si parla di un "neomedievalismo istituzionale" che, in un mondo ormai senza più centro, fa emergere la realtà di grandi coalizioni d´interessi, soprattutto economici, che s´impadroniscono del reale potere di governo, utilizzando potentemente anche le nuove tecnologie. Lo stesso accade nella dimensione nazionale, dove la capacità rappresentativa abbandona i parlamenti, s´incarna nelle più diverse corporazioni, ci offre l´immagine di una società a suo modo feudale. Post-democrazia o congedo dalla democrazia?
L´insistenza sulla partecipazione non può essere disgiunta da un ripensamento della rappresentanza che tenga conto proprio del fatto che le tecnologie dell´informazione e della comunicazione hanno già trasformato la democrazia, l´hanno fatta divenire "continua", hanno così cambiato il senso dello stesso momento elettorale. Conosciamo i rischi che accompagnano questo modo d´organizzarsi della società: la trasformazione dei cittadini in "carne da sondaggio"; l´illusione della sovranità generata dalla possibilità di consultazioni ripetute, dove però i cittadini compaiono solo alla fine di un processo decisionale al quale sono rimasti estranei; l´utilizzazione delle opportunità tecnologiche per creare nicchie propizie ai telepredicatori, a gruppi che si autolegittimano e si sottraggono a qualsiasi forma di controllo democratico. Tutte derive plebiscitarie, che aumentano il tasso di autoritarismo del sistema politico dando l´apparenza della partecipazione.
Le tecnologie devono consentire il diffondersi del potere dei cittadini sull´insieme dei processi politico-istituzionali, così riguadagnati alla logica della democrazia. Questo vuol dire dotare tutti di strumenti che consentano la conoscenza, la valutazione critica, il controllo, l´elaborazione autonoma di proposte e strategie, sottraendosi all´ingannevole logica dei "referendum elettronici" e trovando nuove forme di integrazione con l´attività dei parlamenti. Questa è la strada, che molti già cominciano a percorrere, di una nuova cittadinanza, in cui l´accesso alla conoscenza diventa pure lo strumento per rimuovere il pregiudizio dell´incapacità dei cittadini a dire la loro su molte materie, come avvenne al tempo del referendum sulla procreazione assistita, quando l´affermare che si trattava di materie ostiche, riservate agli specialisti, fu un´arma potente per indurre all´astensionismo.
Seguendo questa strada la contrapposizione tra società civile e società politica si libera di molte tra le ambiguità che l´accompagnano. E si può aprire la possibilità concreta di disegnare una nuova sfera pubblica, affrancata dalle pretese autoritarie ed oligarchiche che continuano a manifestarsi.

Stefano Rodotà

Stefano Rodotà (1933-2017) è stato professore emerito di Diritto civile all’Università di Roma “La Sapienza”. Ha insegnato in molte università straniere ed è stato parlamentare in Italia e in Europa. …