Gian Antonio Stella: Le donne di Sarkozy e l’ipocrisia degli italiani

21 Maggio 2007
Che belle, le donne degli altri. I compiaciuti applausi bipartisan alla scelta di Nicolas Sarkozy di varare in Francia un esecutivo composto per metà di ministre tra cui perfino una maghrebina che il gentleman Roberto Calderoli definirebbe ‟molto abbronzata”, grondano d’ipocrisia come i cachi d’autunno. Non c’è Paese al mondo, infatti, che abbia assistito negli ultimi anni a un tormentone sfacciatamente bugiardo sulla donna in politica quanto il nostro. Ricordate cosa giurò Romano Prodi, prima delle elezioni che l’avrebbero riportato a Palazzo Chigi? ‟Nel mio governo ci saranno molte donne e avranno portafogli pesanti”. Sì, ciao: 6 ministre su 26 (meno di un quarto, quasi tutte senza portafogli) e 14 sottosegretarie su 76, compresi i vice-ministri. ‟Mi aspettavo di più”, fu il suo indimenticabile commento, dopo aver dato vita a un gabinetto cinque volte più obeso (11 ministri e 72 sottosegretari in più) di quello appena nato in Francia. E da chi se lo aspettava quel ‟qualcosa di più”, se la Costituzione dava a lui la facoltà (spesso rivendicata) di scegliere i membri del governo? Risposta: ‟I partiti non mi hanno proposto un numero di donne da poter arrivare a otto”. Alla faccia delle promesse di Piero Fassino (‟Il nostro progetto riformista intende mettere al centro le donne, le loro aspirazioni, la loro libertà”), dei mea culpa di Francesco Rutelli (‟I partiti italiani che non danno spazio alle donne, Margherita compresa, fanno schifo”), delle lettere pubbliche di Fausto Bertinotti sul sogno di ‟un governo dell’Unione che vedesse la metà delle donne tra i suoi ministri e viceministri”. Con Silvio Berlusconi, del resto, all’‟altra metà del cielo” era andata anche peggio. Dice oggi il Cavaliere, con un occhio alla trionfale cavalcata sarkoziana, che alle prossime politiche ha ‟intenzione di portare in Parlamento molti più giovani, ma soprattutto il 50% saranno donne”. Evviva. Ma nel ‘94, nonostante corteggiasse le casalinghe raccontando amabili storielle (‟Anch’io sono stato un po’ donnina di casa, perché quando studiavo ed ero un ragazzo di famiglia, buttavo giù la polvere e ogni tanto facevo la spesa. So quanta fatica ci vuole per lavorare a casa e creare un clima di serenità quando il marito torna dal lavoro...”) nel suo primo governo c’era una donna sola, Adriana Poli Bortone, impostagli da Gianfranco Fini. Come da Umberto Bossi gli era stata imposta Irene Pivetti. E le cose erano appena appena migliorate con il suo secondo e il terzo esecutivo: una donna alla Istruzione (Letizia Moratti) e una (Stefania Prestigiacomo) alle pari opportunità. Fine. Conosciamo l’obiezione: il peso della storia, le stratificazioni culturali... Giusto. Da noi le donne poterono votare solo nel 1946 e cioè 66 anni dopo la concessione del diritto di voto delle inglesi alle amministrative e 52 dopo il voto universale in Nuova Zelanda. E sempre quel 1946 le prime deputate si sedettero in Parlamento 39 anni dopo le finlandesi. La prima sottosegretaria, Angela Cingolani Guidi, lo diventò nel 1951 dopo 186 maschi nel solo dopoguerra e a distanza di 33 anni dalla nomina della prima sottosegretaria al mondo, la polacca Irena Kosmowska. Così come Tina Anselmi arrivò a giurare come ministra, nel 1976, nel III governo Andreotti, solo dopo 115 anni di unità d’Italia e 836 ministri. Tutto vero. Ma un quarto di secolo fa il resto dell’Europa non era poi così diverso da noi. Un’inchiesta di Maria Antonietta Macciocchi spiegava che era ‟appena del 7,17% la presenza delle donne nei governi e nei centri decisionali, nella magistratura, nella diplomazia, nei grandi centri culturali e nelle università” del vecchio continente. E che su 187 ministri dei vari governi, c’erano solo 16 donne. E ancora 16 erano le donne ‟tra i 222 segretari o sottosegretari di Stato”. Insomma, eravamo ultimi, con una sola ministra e una sola sottosegretaria, ma tutta la politica continentale era marcata ancora da una forte impronta maschile. Da allora, però, è cambiato tutto: noi siamo rimasti fermi, gli altri hanno no. Già nella primavera 2004 c’erano 5 donne su 21 ministri in Gran Bretagna, 4 su 32 in Irlanda, 5 su 16 in Olanda, 6 su 21 in Belgio, 4 su 14 in Lussemburgo, 11 su 39 in Francia, 8 su 16 in Spagna, 4 su 18 in Portogallo, 8 su 18 in Finlandia, 11 su 22 in Svezia, 6 su 18 in Danimarca, 8 su 33, 2 su 18 in Austria, 8 su 33 in Germania... E da allora hanno accelerato tutti. È donna il presidente della Repubblica (Mary McAleese) in Irlanda. Sono donne la cancelliera (Angela Merkel) e 5 ministre su 18 dell’esecutivo tedesco. Donne 7 su 14 ministri del governo di François Fillon in Francia. Donne 9 membri (compresa la responsabile dell’Economia e quella della Difesa) su 19 del governo norvegese. Donne addirittura 12 contro 8 dei nuovi ministri della Finlandia, che già aveva come capo dello Stato quella Tarja Halonen che andò su tutte le furie il giorno in cui Silvio Berlusconi le dedicò una battuta da galletto (‟Per portare l’authority alimentare a Parma ho rispolverato le mie doti di playboy col presidente finlandese”) che al di là delle scelte sessuali non si sarebbe mai permesso con uno statista maschio. E non siamo rimasti al palo solo in Europa. A pochi anni dal giorno in cui Giuliano Amato s’indignò per le ironie che avevano accolto la sua proposta di mandare al Quirinale una donna (‟Manco avessi proposto un coleottero!”), ci sono oggi sei donne, regine a parte, che ricoprono il ruolo di capo dello Stato: le già citate Halonen e McAleese più Michelle Bachelet (Cile), Vaira Vike-Freiberga (Lettonia), Ellen Johnson Sirleaf (Liberia) e Gloria Macapagal Arroyo (Filippine). Diciassette sono quelle alla guida dei delicati ministeri degli Esteri, dall’austriaca Ursula Plassnik all’americana Condoleezza Rice, dall’israeliana Tzipi Livni alla mozambicana Alcinda Abreu, dalla britannica Margaret Beckett alla paraguaiana Leila Rashid De Cowles. E traboccano di donne i parlamenti non solo del Nord scandinavo ma anche di Paesi sudamericani o perfino africani quali il Ruanda (30% nella camera alta, 48,8% in quella bassa). E poi i governi della Colombia (dove Alvaro Uribe ha affidato al ‟gentil sesso” la difesa, gli esteri, l’ambiente e la cultura), del Cile o della Bolivia, dove Evo Morales ha voluto al ministero degli Interni Alicia Munoz Alá. Per non dire dell’ascesa negli Stati Uniti di Hillary Rodham Clinton e Nancy Pelosi o della sfida, perduta ma finalmente lanciata, di Ségolène Royal. E di altri centinaia di casi registrati giorno dopo giorno. Solo noi stiamo fermi. Solo noi. A consolarci buttando un occhio a quanto accade in Turchia. Dove un movimento di tremila attiviste ha cominciato a irrompere in certe riunioni politiche (‟Dobbiamo essere maschi, per entrare?”) appiccicandosi un paio di baffoni. Solo noi. Irrimediabilmente legati a un vecchio aforisma di Roberto Gervaso: ‟Le donne degli altri mi piacciono finché restano degli altri”.

Gian Antonio Stella

Gian Antonio Stella è inviato ed editorialista del “Corriere della Sera”. Tra i suoi libri Schei, L’Orda, Negri, froci, giudei & co. e i romanzi Il Maestro magro, La bambina, …