Vittorio Zucconi: Bush. Metamorfosi di un presidente

05 Giugno 2007
Il nome è lo stesso, George W. Bush, la carica è sempre quella solenne simboleggiata dall’aquila imperiale, l’Air Force One rimane il più grande e costoso aereo di servizio nel mondo, ma l’uomo che scenderà da quella scaletta non è più quello di cinque anni or sono. Non viene più per ordinare, ma per domandare. Vuole ottenere aiuto a uscire dall’angolo politico, strategico e morale nel quale si è rinchiuso.
Non lo ammetterà mai nei discorsi pubblici, ma l’imperioso texano del 2002 e 2003, il visionario bastonato dalla realtà che si comportava come il titolare della cattedra universale del Bene e del Male, è oggi un uomo che ha bisogno delle altre nazioni, come dei voti dell’opposizione nel suo Parlamento, per salvare ciò che resta di quella che ormai a Washington viene definita una ‟failed presidency”, una presidenza fallita, che sta corrompendo l’immagine e il prestigio degli Stati Uniti nel mondo. Se persino una incolpevole e bella ragazza, Miss America, viene sepolta dai fischi e dagli ululati della folla al concorso di Miss Universo in Messico soltanto perché porta la scritta Usa sulla fascia, il progetto di fare del XXI secolo il ‟nuovo secolo americano”, dalle strade di Bagdad alle sfilate delle miss, non è andato benissimo. Questo del 2007 sarà l’ultimo G8 di Bush nella pienezza politica dei propri poteri, perché il prossimo, quello del 2008 cadrà in un’America che a quell’epoca avrà già scelto i candidati repubblicano e democratico alla successione e su di essi concentrerà tutta la propria attenzione. Il senso di irrilevanza, di ‟giornale di ieri” che da tempo circonda il presidente diventerà allora totale, come un sipario finale.
Per salvare dunque almeno uno strapuntino della storia, e strappare la propria eredità alla autoinflitta maledizione della guerra in Iraq, il Bush in edizione 2007 sta faticosamente cercando di cambiare la propria immagine, di presentarsi come qualcuno che, senza rinunciare a nulla, ha dovuto rinunciare a tutto.
Lo abbiamo visto metamorfizzarsi in "George l’Ecologista", proponendo quello che ieri aveva sdegnato e irriso, cioè una collaborazione internazionale per ridurre gli effetti nocivi sulla terra prodotti dall’attività umana, un concetto che la sua claque ideologica considerava insensato. Senza avere il coraggio di ammetterlo, perché la mistica del bushismo consiste nel non ammettere mai di aver sbagliato, sta accettando, o subendo, molti dei passi disegnati dal dileggiato rapporto Baker-Hamilton per uscire dalla fossa settica irachena. Invece è stato proprio Bush, a riprendere, per la prima volta dopo 27 anni un contatto diretto con la "canaglia" Iran e a mandare Condoleezza Rice a parlamentare con la Siria, accusata di ogni nefandezza.
Tutti gli uomini chiave che Bush aveva sistemato ai crocevia della politica internazionale per dominarla, dall’ambasciatore John Bolton all’Onu all’esecrato Paul Wolfowitz piazzato ai rubinetti dei finanziamenti e quindi dei ricatti ai poveri nella Banca Mondiale, sono stati respinti o cacciati mentre a Washington si riesumano ipotesi di internazionalizzazione del disastro Iraq, proprio attraverso il detestato Palazzo di Vetro. E se i problemi terribili che esplosero sul tavolo di Bush nel settembre del 2001 sono ancora tutti irrisolti, se i despoti rimangono tranquillamente al loro posto, altri ne sono affiorati, perché il vento della instabilità e dell’antiamericanismo dilagante soffia più forte, che mai prima.
E nessuno potenzialmente più grande di quel Vladimir Putin che sta spregiudicatamente cavalcando la propria capacità di strangolare l’Europa e soprattutto la debolezza di un’America con le dita inchiodate in Iraq e con un Presidente azzoppato e irrilevante. Di fronte a Putin, colui del quale ‟so di potermi fidare perché l’ho guardato negli occhi”, disse con mirabile intuito Bush, di fronte all’Iran nucleare, al permanente strazio israelo-palestinese ignorato per sei anni come un ‟siparietto” e quindi incancrenito, l’aquila divenuta papera non ha più retorica efficace, non ha armi né piani, ora che il ‟grande gioco” sognato dalle farneticazioni dei neocon è crollato e deve chiedere appoggi e puntelli, ‟multilaterali” come ora si può tornare finalmente a dire, in una nuova, e più equa, ‟coalizione dei volonterosi”. Soprattutto, il nuovo Bush chiede di ridare, non a lui, che è storia di ieri, ma a quella nazione della quale il nostro mondo ha ancora disperato bisogno, un poco del capitale che il vecchio Bush del 2001 aveva sperperato, la credibilità. Se non vogliamo farlo per lui, facciamolo almeno per Miss America.

Vittorio Zucconi

Vittorio Zucconi (1944-2019), giornalista e scrittore, è stato condirettore di repubblica.it e direttore di Radio Capital, dove ha condotto TG Zero. Dopo aver cominciato nel 1963 come cronista precario a …