Gabriele Romagnoli: Strage di Duisburg. Storia di F, a 16 anni nella pancia della faida

28 Agosto 2007
Come quando cade un aereo, si scorre la lista dei passeggeri e se ne scopre uno che quel volo non avrebbe dovuto prenderlo, ma ha trovato posto all’ultimo momento: dalla lista d’attesa al nulla, sola andata. Così il ragazzo Giorgi Francesco, anni sedici, che in Germania non ci voleva andare. Lo diceva sempre al padre: ‟Io resto qui, finisco la scuola alberghiera e apro un ristorante qui”. Il padre scuoteva la testa: ‟Qui? A San Luca?”. Non finiva neppure la frase. Bastava il nome del loro paese per chiudere ogni porta e speranza. Lui a San Luca ci era tornato, dopo essere emigrato in Germania, quando gli avevano trovato un posto, va da sè, da forestale (come un abitante su nove, un uomo attivo su tre). Ma quel figlio che studiava con successo non voleva avesse un lavoro di facciata e, soprattutto, corresse rischi, finisse magari con una pallottola in testa per una faida cominciata proprio l’anno in cui venne al mondo: ‟Il maledetto millenovecentonovantuno - diceva - quando abbiamo perso la pace e avuto Francesco”. Per il ragazzo la faida era una leggenda nera, che si mischiava al mito della sua nascita, sua madre che sorride, le altre che piangono, la casa in festa, il paese a lutto. Era cresciuto sentendone parlare continuamente, dietro i cancelli rossi dove abitava con quattro sorelle, i genitori e decine di crocefissi. Sua madre portava uno dei cognomi, Strangio, che finivano sulle lapidi o che facevano incidere le lapidi altrui. Strangio era anche il sacerdote della parrocchia che l’aveva accolto e arruolato nella squadra di calcio dove giocava da attaccante. Strangio lo zio Sebastiano che viveva a Duisburg e con Strangio Giuseppe gestiva il ristorante chiamato (chissà perché) Da Bruno. ‟Quest’estate andrai da lui a imparare il mestiere”, gli aveva annunciato il padre. Francesco aveva accettato con entusiasmo. Si trattava solo di una trasferta a termine. Sarebbe tornato a settembre, per riprendere gli studi e partecipare al matrimonio di una delle sorelle. Era partito con una sola valigia. Capelli castani, faccia scavata, sapeva poco di tedesco, ma avrebbe imparato. E poi Da Bruno il menù era in italiano: involtini di carne alla calabrese, filetto di orata alla calabrese, gamberoni alla calabrese, come non spostarsi neppure dalla cucina di casa. Anche il ristorante aveva per lui un’aria di casa: appeso alla parete c’era un enorme crocefisso, come giù, a San Luca. Zio Sebastiano, emigrato da vent’anni, aveva imparato a conoscerlo quando tornava per le feste di Natale e Pasqua. Qui gli sembrava più felice, realizzato. Non era sicuro che s’occupasse soltanto di cibo, riceveva personaggi arrivati dalla Calabria in ufficio, dopo la cena. Ma questi non erano affari suoi. Lui, i suoi affari, se li sarebbe fatti a San Luca. I genitori lo chiamavano spesso, ma senza preoccupazione: saperlo lontano dal paese li rassicurava. La ferita riaperta dall’omicidio a Natale di un’altra Strangio, Maria, non poteva diventare letale per il loro unico figlio maschio, almeno finché se ne stava lassù. Al Santuario dei Polsi la madre portava comunque ogni giorno il suo voto, ascoltava la figlia Elisa cantare nel coro, pregava, ma aveva un timore di meno. ‟Ti sei fatto degli amici lì, Francesco?”. Sì, soprattutto uno: Tommaso. Tommaso Venturi, di poco più grande, che avrebbe compiuto 18 anni a Ferragosto. Anche lui lavorava Da Bruno, nelle sere più pesanti. Si spartivano le mance, discutevano di calcio. Tommaso, che in Germania ci era nato, aveva una inspiegabile passione per il Bologna. Facevano qualche partitella di calcetto, mettevano in formazione anche i fratelli La Pergola, Marco e Francesco, di poco più grandi, venuti dalla Locride per fare i pizzaioli. ‟La sera che Tommaso diventa maggiorenne, quando vanno via tutti festeggiamo tra noi”, aveva promesso zio Sebastiano. "Noi" erano loro cinque. Poi, all’ultimo momento, si era aggiunto un sesto invitato, l’altro passeggero fuori lista, Marco Marmo, arrivato due giorni prima. Uno di quelli che si chiudeva con zio Sebastiano a parlare nell’ufficio. Di affari e della "faida". Sedici anni a sentirla nominare, e a scansarla. è la solita, trita e inesorabile, storia di Samarcanda. Pensi che la morte ti stia a fianco, fuggi lontano e quando sei arrivato, ti sei sistemato e rilassato te la trovi lì ad aspettarti, un po’stupita della tua puntualità. Il ragazzo che non doveva esserci, che aveva un cognome comune e non iscritto al registro nero, ha brindato con gli altri, liberandosi della divisa da cameriere e diventando uno di loro, tutti più grandi e affermati. Un giorno, pensava, sarebbe diventato come loro. Quel giorno era già arrivato. Il tempo per diventare non pizzaiolo, nè ristoratore e neppure oscuro trafficante. Soltanto per essere il sesto nome sulla lista delle vittime. Accanto, un asterisco. A pie’di pagina, una nota: nato con la faida, morto per la faida, più di ogni altro innocente.

Gabriele Romagnoli

Gabriele Romagnoli (Bologna, 1960) Giornalista professionista, a lungo inviato per “La Stampa”, direttore di “GQ” e Raisport è ora editorialista a “la Repubblica”. Narratore e saggista, il suo ultimo libro è …

La cattura

La cattura

di Salvo Palazzolo, Maurizio de Lucia