Giorgio Bocca: Vi racconto il mio Dalla Chiesa

05 Settembre 2007
Per gli italiani il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa è stato un uomo esemplare, tutto di un pezzo, servitore dello Stato e padre affettuoso, figlio e fratello di carabinieri, un italiano come non ce sono più, da ricordare alle nuove generazioni con rimpianto, da commemorare nei libri di scuola, da onorare nella memoria. Sì, Dalla Chiesa è stato tutto questo, anche se spesso così poco conosciuto dai suoi concittadini. E’ stato un uomo sorprendente per me che lo seguivo nelle sue imprese di grande poliziotto. Un uomo tutt’altro che semplice, ma di una ambiguità – una nobile ambiguità – sorprendente. Gli piaceva a volte essere un retore, diceva di avere gli alamari dell’arma stampati sulla pelle, si definiva un fedelissimo servitore dello Stato, ma per servirlo nella guerra alle Brigate Rosse aveva chiesto e ottenuto di avere una forza speciale, composita, di uomini scelti da lui fra i carabinieri ma anche in altre armi, liberi di usare metodi polizieschi eccezionali, insieme tecnici e psicologici, un corpo capace di sorprendere per fantasia e iniziativa anche i più audaci sovversivi. Così l’uomo d’ordine e di tradizione esemplari si trasformava in un capitano di ventura, in un cavaliere senza macchia e senza paura. Era imprevedibile, Dalla Chiesa. Uomo d’armi, di opere coraggiose, di dure discipline eppure attratto dalle emozioni della vita, dal piacere di sentirsi giovane vicino alla moglie che, poi, sarebbe morta con lui nell’agguato di Palermo. Era un militare che si occupava di cose serie, su cui non scherzare, ma che non rinunciava all’ironia, alla battuta dissacrante. Lo incontrai per la prima volta a Palermo negli anni Sessanta: io dovevo fare un’inchiesta sulla mafia, lui era un giovane ufficiale in una caserma dei carabinieri. Mi venne incontro sorridendo: ‟Ma come anche lei crede che la mafia esista?”, diceva. Era – il nostro – un modo paradossale ma drammatico di due piemontesi che parlavano di un nemico incomprensibile e invincibile. Dalla Chiesa era assieme uomo clemente e impietoso, era il grande poliziotto che riconciliava i figli sovversivi con i padri ma anche il repressore inflessibile della rivolta nel carcere di Alessandria o del covo genovese delle Br. Non aveva esitazioni e ripensamenti nell’esercizio del suo dovere ma era anche attaccato alla vita e alle sue dolcezze: mi accompagnava all’aereo con cui da Palermo sarei tornato a Milano – dall’inferno alla salvezza – mormorando ‟beato lei che può andarsene”. Era l’uomo che pure vivendo nella più implacabile serietà amava scherzare e sapeva stare allo scherzo. Come quella volta che fece raccontare dai giornali che aveva arrestato Curcio a Pinerolo di sorpresa mentre io scrivevo che non era vero e che aveva usato per attirarlo nell’agguato ‟frate mitra”, il sacerdote avventuriero Girotto. Dalla Chiesa era un signore prudentissimo e astuto sfuggito a cento agguati ma che per fare l’eroe davanti alla giovane moglie si avventurava con lei su un’auto nella notte di Palermo. Lo stesso che, arrivando a sorpresa ad una festa in una casa della Milano ‟da bere” ricca e felice, si divertiva a vedere le facce stupite e spaventate di coloro a cui lo presentavo d’improvviso. Quel generale tutto concretezza e cinismo sapeva fare ai giovani discorsi ingenui ed evangelici, sui vantaggi dell’onestà e delle buone azioni, credendoci. E credeva che anche la mafia sarebbe stata vinta dai buoni esempi e dalle buone intenzioni. Siccome in qualche singolare modo piemontese lo sentivo simile, mezzo sergente di ferro e mezzo cuore dolce, gli ero affezionato. E anche grato.

Giorgio Bocca

Giorgio Bocca (Cuneo, 1920 - Milano, 2011) è stato tra i giornalisti italiani più noti e importanti. Ha ricevuto il premio Ilaria Alpi alla carriera nel 2008. Feltrinelli ha pubblicato …

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