Giorgio Bocca: Quel riso bollito dei partigiani ragazzini

27 Dicembre 2007
Un Natale e un Capodanno partigiani. Un Natale di povertà, un Capodanno di fatica, ma quando la gioventù rimediava tutto. Cominciamo dal Natale. È giunto l’ordine di far spostare la terza banda dalla zona di Brusasco al versante di Maira. Partiamo in ricognizione. Da due ore camminiamo su un sentiero appena tracciato e non riusciamo a trovare una grangia. Quelle che abbiamo visto sono troppo in basso e lontane dalla cresta che confina con la Val Varaita in cui la banda continuerà ad operare. Finalmente, cinquanta metri sotto di noi, nascoste dai pini, due piccole case in pietra. La porta è chiusa, ma con una spallata il piccolo chiavistello in legno cede. Il tetto è sfondato da una parte e si vede uno squarcio di cielo, a terra un palmo d’acqua stagna, non c’è un vetro alle finestre, mi sale alle narici una vampata di odore di legno marcio, di foglie in decomposizione. Mi rivolgo a Franco che sta osservando. E allora? Gli chiedo. Va benissimo, risponde, basta un po’ di lavoro. Dieci giorni dopo le due grange solitarie erano irriconoscibili, gente in gamba quella della terza banda. Ai due lati della stanza terrena, con tronchi di pini incastrati e legati, hanno costruito due lettiere aeree, come su palafitte, fra le due lettiere un corridoio pavimentato con grosse pietre permette agli uomini di raggiungerle, in fondo, appoggiata alla parete, una stufa preistorica fatta di massi di pietra cementati col fango. Nella stufa brucia un ceppo di faggio spesso mezzo metro. Ne consumano dieci per notte, ma di legna attorno non ne manca. Il calore aveva asciugato l’acqua e rassodato il fango; mentre fuori cadeva la prima neve, nella grangia si poteva dormire a torso nudo, mancava la paglia per le lettiere, ma supplivano le foglie secche di faggio chiuse nei teli-tenda. Il tetto era stato rifatto, e alle finestre c’erano dei ripari di rami di pino. Pranzai con i partigiani: riso bollito e formaggio di casera, quello era il nostro cenone di Natale, poi mi coricai proprio vicino al fuoco. Dopo qualche canzone gli uomini si addormentarono. Alla luce discontinua ma calda della fiamma, vedevo i loro visi distesi nel sonno. Sembravano volti di bambini, dormivano vicini l’uno all’altro con un respiro tiepido, tranquillo. Si sentì raspare nella neve, era la pattuglia di guardia, dentro i partigiani dormivano. Allora per la prima volta, in quel momento di calma, pensai alla vita di quei ragazzi, dormienti in una capanna sperduta in un vallone boscoso di montagna, fui preso da una commozione triste ed affettuosa. L’indomani continuò a nevicare, ne era scesa più di un metro, e per mandare le staffette al comando della Val Maira battiamo una pista, verso il basso diritta come un filo a piombo, stretta e ripida, in cui nemmeno le Ss dovrebbero avventurarsi, ma lei sì, e quando le sentinelle danno l’allarme so che è lei: la signora Emma. Prendo il binocolo, guardo quel punto nero che è appena uscito dal bosco, ma so che è lei, piccola e indomita, una ebrea da combattimento, alta un metro e cinquanta, con un cappello piatto che ricorda quello di Garibaldi, nero come la giubba e la gonna che scendono fino alle caviglie e sembrano la corazza di un semovente. Emma viene da Torino, a vedere il figlio partigiano, ogni quindici giorni, e dovunque siamo ci trova, ci ha trovato anche questo Natale: è arrivata in tramvia fino a Verduolo, ha affittato una bicicletta, è risalita in Val Maria, e poi a piedi, per le pietraie e nella neve. Di sorriso bellissimo e dolce, ma con un’attitudine al comando naturale, mi dà ordini perentori: gli uomini non sono abbastanza coperti, i posti di guardia non sono ben disposti, quella ragazza che è uscita da una baita, quella staffetta, ci sarà da fidarsene? La signora Emma ispeziona, controlla, osserva, quando si fa scuro mi dà la mano con una sua severa benevolenza, e se ne va giù per la trincea di neve. Comunque fu una vera liberazione quando arrivò l’ordine di lasciare le due grange sotto il Ratsciass e partire con due bande verso le Langhe. Una scarpinata come quella del primo gennaio '45 non la si dimentica: dalla Val Grana alle Langhe, la nostra anabasi, dalla montagna povera alle ricche colline del vino. Avanti in formazione di marcia, in testa una squadra di quindici uomini senza carico, con le armi leggere, duecento metri indietro le bande su due file indiane ai due lati della strada. Giriamo attorno a Caraglio, si taglia per campi, seguendo i filari dei pioppi e le bealere, ci fanno da guida gli uomini della ventesima brigata Gl della pianura. Le guide sembrano sicure: «Fuori dalle strade asfaltate - dicono - i tedeschi non vanno mai. Qualche fascista, ma di giorno». A mezzanotte ci fermiamo in due cascine di San Benigno. «Buon anno», dico al padrone di casa; «che sia l’ultimo» dice, lui; «speriamo l’ultimo», dico. Rimettiamo i sacchi in spalla, gli uomini spengono le sigarette, siamo di nuovo nel gelo. Adesso saranno almeno dieci sottozero, e si alza anche il vento, non forte ma che entra nei pantaloni, ti morde i muscoli. Le armi dolgono sulla schiena, bisogna cambiarle di spalla di continuo. «Quanto ci vuole ancora?». «Ci siamo quasi», dicono le guide. «Riposiamoci cinque minuti», dico. «No - dicono loro - dobbiamo essere ai Murazzi prima dell’alba». «Ci siamo», dicono le guide indicando una grande cascina. «Ma siamo a cinque metri dalla provinciale». «Il posto è sicuro», dicono loro. Gli uomini scivolano nel cortile, entrano nel fienile e si gettano vestiti a dormire, passa rombando sulla provinciale un camion, forse tedesco. «Non si fermano mai?». «No», dicono. «Non mi fido, andiamo al guado sulla Stura». Il guado sulla Stura sono due corde d’acciaio tese tra due gabbioni sopra il fiume, ci si aggrappa con le mani a quella superiore, e si fanno scivolare di lato gli scarponi sulla inferiore. Gli uomini che portano le mitraglie le assicurano con un moschettone alla corda superiore. Di notte il guado non fa paura. Siamo sull’altra sponda, e nella luna calante, nel cielo che si sbianca, vedi che le montagne si sono allontanate, che non ti tirano più per la giacca, e che laggiù dove c’è un primo color di rosa ci sono le Langhe, le terre del vino e del pane bianco. A Benevagenna c’è un presidio tedesco: hanno fatto le ore piccole, stanno ancora lanciando fuochi d’artificio per festeggiare. Il campanile alto di Monchiero batte le sette quando prendiamo la strada di Monforte e ci fermiamo in due cascine, questa volta per dormire sul serio. Ci svegliano a mezzogiorno e chiedono cosa vogliamo da mangiare; hanno preparato i tajarin, salsicce fritte e bottiglie di nebbiolo. Ma cos’è questa tristezza, quest’ansia che vedo sul volto degli uomini? Forse il mal di montagna, questo sentirsi fuori dalla montagna e non capire che guerra si farà in mezzo a queste vigne. In qualche modo faremo, impareremo, conosceremo.

Giorgio Bocca

Giorgio Bocca (Cuneo, 1920 - Milano, 2011) è stato tra i giornalisti italiani più noti e importanti. Ha ricevuto il premio Ilaria Alpi alla carriera nel 2008. Feltrinelli ha pubblicato …