Umberto Galimberti: I giorni del sacro dell’uomo moderno

27 Dicembre 2007
Natale è ancora una festa cristiana? Anche per l’ateo che non crede in Dio, per l’agnostico che non sa se Dio c’è, per il laico che nelle sue scelte etiche prescinde dalla nozione di Dio? Guardando le pratiche natalizie degli acquisti e dei consumi sembra che nella nostra cultura il Natale sia ormai già ateo, o se preferiamo agnostico, certo profondamente laico. Di cristiano è rimasto solo il rito che si ripete, la ricorrenza che ritorna, la festa che, come nessun’altra, è davvero "comandata". Comandata da chi? Dalla nostra economia naturalmente che, per quanto in affanno, resta comunque un’economia dell’opulenza dove il consumo e lo spreco sono sotto gli occhi di tutti in un tripudio di malcelata festività. E allora come conciliare la cultura cristiana che si è soliti individuare come forma dell’Occidente, con il livello di ricchezza e abbondanza raggiunto dalle società occidentali? Varrebbe la pena di fare esplodere questa contraddizione così ben palesata dall’albero di Natale, simbolo non cristiano dove traluce il nostro benessere, che ha preso il posto del presepe cristiano che è invece spettacolo dell’indigenza e della povertà. Dalla stalla dove è nato Gesù il senso del Natale cristiano si è infatti trasferito nel luccichio dei negozi, nella sovrabbondanza dei supermercati, nelle evasioni promesse dalle agenzie di viaggio, per cui la domanda non è: che senso ha la festività di Natale per un laico, ma che significato essa ancora possiede per un cristiano che vive in una cultura opulenta, e in ogni suo aspetto laicizzata, dell’Occidente "cristiano"? Non basta un po’di volontariato quanto mai benefico, ma decisamente insufficiente, per attutire gli inconvenienti che nascono dalla logica ferrea del mercato che non prevede il dono, ma la rigida contrattazione. Così come non basta fare "doni" a Natale per mascherare la legge economica del profitto che governa l’Occidente. No, non basta. E allora diciamolo: l’Occidente forse non è più cristiano e la completa laicizzazione del Natale, la festa cristiana per eccellenza, è solo una conferma che il cristianesimo in quella sua vera essenza che è l’amore per il prossimo, lontano o vicino che sia, in Occidente non ha più casa, né chiesa, né luogo dove trovare espressione. Ne è prova la povertà del mondo che langue inespressiva nelle coscienze dell’Occidente cristiano, notizia smarrita tra le tante che, nell’indifferenza generale, giungono da terre che l’Occidente considera straniere? E allora il cielo sopra la grotta del presepe di Natale diventa un testimone indifferente dove, esausto, si ripete il rito della nascita di Gesù, con santi e angeli che non hanno sguardo per ciò che capita sotto i loro occhi. Il tempo della speranza, che il cristianesimo ha inaugurato e che Papa Ratzinger ha riproposto nella sua ultima enciclica, si è fatto così lontano da diventare estraneo al nostro sguardo, perché ormai siamo alla cruda accettazione della casualità della nostra esistenza, senza neppure l’inquietudine della crisi, senza il gusto di vivere questo tormento, nuova ed eccitante maniera di percorrere il nostro tragitto, che a Natale ci porta ritualmente nella casa dove siamo nati per onorare il padre e la madre, ultima orma del sacro, da cui l’indomani ci congediamo per incamminarci di nuovo lungo la via che del sacro ha perso non solo l’origine, ma anche la traccia. Eppure nella grotta di Betlemme, per i cristiani, il divino s’è fatto terreno, e la terra è diventata la dimora di Dio. Allora il tempo si è spaccato in due: prima e dopo Cristo. La natura e il suo ciclo hanno ceduto al futuro e alla sua promessa. Il tempo, reso gravido di senso, ha cessato di essere puro e indifferente "divenire" ed è diventato "storia". In questo modo il cristianesimo si è separato dalle mitologie primitive che leggono il tempo a partire dal "passato", da un’età dell’oro o paradiso perduto in cui si rifugia la nostalgia, perché il cristianesimo proietta la salvezza in quel possibile "futuro" a cui si agganciano sia l’utopia, sia la rivoluzione, quando la nuova figurazione del tempo, inaugurato dal cristianesimo, si contamina con l’ateismo della speranza. Per lontane che possano sembrare, utopia, progresso e rivoluzione sono eventi cristiani, appartengono al tempo "dopo" Cristo, scavano il motivo della speranza, sondano possibilità di salvezza, credono che la storia abbia un senso, guardano con sospetto il nietzscheano "tempo senza meta". L’Occidente è stato sedotto da questo nuovo modello di temporalità e, in versione cristiana, utopica o rivoluzionaria, ha sempre celebrato nel Natale non il ritmo del "ritorno", ma l’atmosfera della "rinascita", l’entusiasmo di ciò che ancora è in grado di promettere il futuro: la promessa del tempo. è ancora in circolazione questa promessa che è tutta cristiana? A me pare di no. Da quando il denaro è diventato in Occidente l’unico generatore simbolico di tutti i valori e la tecnica il mezzo per conseguirli, senz’altro scopo che non sia il suo autopotenziamento, il futuro non appare più come promessa, e ancor meno come speranza. I suoi tratti sembrano piuttosto quelli dell’incertezza e dell’indecifrabilità. E allora che ne è del cristianesimo che ha fatto la sua irruzione nel tempo annunciando proprio il futuro come speranza? In Occidente se ne è persa la traccia. Non so se questo sia un bene o un male. è semplicemente così. Ma se riconosciamo che la nostra cultura è regolata unicamente dalla rigida legge del mercato ed è disposta a ospitare solo qualche deroga in forma di elemosina, beneficenza e volontariato (utili più ad alleviare il senso di colpa connesso al nostro privilegio che a trasformare le condizioni più disastrose del mondo), allora evitiamo almeno quella falsa coscienza che ci porta a identificare l’Occidente con il cristianesimo. Mai come oggi le due culture appaiono abissalmente distanti. E il modo con cui ogni anno festeggiamo il Natale ne segna inequivocabilmente il disagio e la contraddizione.

Umberto Galimberti

Umberto Galimberti, nato a Monza nel 1942, è stato dal 1976 professore incaricato di Antropologia Culturale e dal 1983 professore associato di Filosofia della Storia. Dal 1999 è professore ordinario …