Curzio Maltese: La rivoluzione in parlamento

29 Gennaio 2008
C’era una vignetta di Vauro l’altro giorno sul manifesto: ‟Prodi se n’è andato, Berlusconi non è ancora tornato. Godiamoci questo magico momento”. È una battuta che rende lo stato d’animo di molti italiani. Alla vigilia di un altro passaggio di consegne fra il vecchio e il più vecchio. La deludente seconda volta di Prodi, la (probabile) terza volta di Berlusconi, all’insegna dell’eterno ritorno. Ma esiste un modo per sfruttare davvero il "magico momento", addirittura per fare una piccola rivoluzione. Le rivoluzioni, com’è noto, in Italia sono possibili soltanto nei brevi intervalli fra una restaurazione e l’altra. Con una dose minima di buona volontà la famigerata casta politica può usare le poche settimane che ci separano dalle elezioni anticipate per dimostrare appunto di non essere una casta e rispondere alla profonda domanda di democrazia del Paese. Sia chiaro che non si tratta di un espediente per rinviare di un anno le elezioni. Basterebbe soltanto spostarle a giugno e permettere il costituirsi di un governo istituzionale, di larghe intese, con un mandato preciso, limitato nel tempo e negli obiettivi: questi.
Prima di tutto, una riforma della legge elettorale nota come ‟porcata”, principale responsabile del presente disastro e rinnegata, almeno a parole, dallo stesso centrodestra. In modo da limitare, con un sistema o l’altro, purché condiviso dalla maggioranza, il numero dei partiti presenti in Parlamento e il relativo potere di ricatto sulla coalizione vincente.
Secondo obiettivo, la riduzione del numero dei parlamentari dagli attuali mille a seicento, quattrocento alla Camera e duecento al Senato. Si tratta di una proposta sbandierata da quindici anni in tutti i programmi elettorali, di destra e di sinistra. Per una serie di circostanze certo molto sfortunate, nessuno dei governi eletti l’ha poi messa in pratica. Se abbiamo una certezza nella vita, questa è che la riduzione del numero dei parlamentari sarà ancora al centro della prossima e imminente campagna elettorale. Ma dal momento che esiste già una teorica unanimità perché non tradurla in pratica prima e non dopo le elezioni? Sono sufficienti pochi giorni di votazioni.
Il terzo punto, logica conseguenza, riguarda la riduzione del numero dei ministeri a dodici. Prevista dall’ultima Legge finanziaria, ma destinata a finire nella fossa delle Marianne dei buoni propositi, con l’eventuale cambio di maggioranza.
Quarto e ultimo obiettivo, una correzione del cosiddetto bicameralismo ‟perfetto” per cui Camera e Senato, unico caso nelle democrazie occidentali, risultano doppioni l’una dell’altra.
Su questi quattro semplici obiettivi, davvero una "modesta proposta", esiste nel Paese reale una larghissima intesa di fatto che va dal presidente della Repubblica al milione di firmatari del referendum, fino al novanta per cento dell’opinione pubblica, stando ai sondaggi. Un accordo fra i grandi partiti può realizzarli in due o tre mesi di lavoro parlamentare. Sarebbe una rivoluzione vera, fra le tante finte e annunciate che hanno scandito il cammino della seconda repubblica. Sarebbe la miglior risposta al montare dell’anti-politica. Vogliamo vederlo poi Beppe Grillo radunare folle oceaniche sulla proposta del "bollino blu" sulle liste o il divieto del terzo mandato, riforme infinitamente meno importanti, radicali e popolari. Infine, è l’unico modo per svelenire in partenza un clima elettorale già gravido in partenza di volgarità, violenza, stupidità e risse da curva calcistica.
La differenza fra accettare o rifiutare questa opportunità di cambiamento si traduce, in termini temporali, in appena due mesi. Si voterebbe a giugno e non ad aprile. Sul piano culturale e politico invece corre un abisso. Un accordo pre-elettorale sulle regole rappresenterebbe un grande segnale di modernità, riformismo, civiltà. La corsa alle urne in queste condizioni si traduce invece in una conferma del teorema antipolitico della "casta". Nella certezza che in questo Paese, chiunque vinca, non cambierà mai nulla.
Il Partito democratico è favorevole a percorrere la strada, benché in realtà punti a rinviare il voto oltre i tre mesi, fino alla primavera del 2009. Ma non dovrebbe essere difficile convincere Walter Veltroni a limitare la missione al tempo strettamente necessario. A quel punto, quali argomenti seri potrebbero avanzare i partiti del centrodestra? Berlusconi e Forza Italia strombazzano da anni, in pratica dalla discesa in campo del 1993, la ferma volontà di combattere il "professionismo della politica" e di semplificare il sistema di rappresentanza democratica. Hic Rhodus, hic salta. Ecco un’occasione d’oro, forse irripetibile, per tradurre in fatti le chiacchiere da spot. Qui e subito. La Lega campa dagli albori sulla lagna circa "Roma ladrona". È vero che nella favoleggiata Padania il partito di Bossi ha dato vita a un sottogoverno da far invidia ai vecchi democristiani. Come del resto ha quasi ammesso con la difesa a spada tratta del diritto di Mastella e famiglia a nominare primari ospedalieri di partito. Esistono poi i casi clamorosi, se lo scandalo fosse ancora di moda in politica, di Gianfranco Fini e Pier Ferdinando Casini. Il leader di An è stato fra i promotori più entusiasti di un referendum che oggi vuole già buttare alle ortiche, nell’urgenza imposta dalla voce del padrone. Il capo dell’Udc è tornato all’ovile dopo aver sollevato la questione della legge elettorale per primo, ai tempi in cui faceva parte del governo di centrodestra. Per entrambi vale oggi la celebre alternativa di Totò: uomini o caporali?

Curzio Maltese

Curzio Maltese (1959-2023) è stato inviato per “La Stampa” e poi, dal 1995 al 2021, editorialista a “la Repubblica”. Nel 2022 ha scritto per “Domani”. È stato scrittore, autore per …